Il difficile parto
dell’aborto italicum
Peggiore la riforma, più radioso il suo futuro
Una provvida influenza ci ha impedito di assistere partecipanti alle ultime concitate vicende politiche. Da quel che sembra abbiamo in campo una riforma della legge elettorale sottoscritta da due dei tre partiti maggiori, rivali tra loro.
Diciamo subito che non ci pare molto diversa dalla legge appena cassata per incostituzionalità. Citando a memoria, sono presenti alcuni identici punti dolentissimi: esagerato premio di maggioranza al vincitore; assenza delle preferenze e conseguente impossibilità dell’elettore di scegliersi il rappresentante.
In più, al contrario della precedente invalida legge da incompetenti in malafede, si aggiunge la drastica trasformazione del senato in un’inutile salotto di rappresentanza; cosa un po’ difficile da digerire in una costituzione dichiaratamente bicamerale.
Diciamo che nessuno dei punti di incostituzionalità della precedente legge viene risolto. Se ne aggiunge un altro, quello dell’abolizione malcelata del senato. D’innovativo c’è solo un probabile miglioramento (solo di un poco) nell’abituale farraginosità della formazione (e mantenimento, soprattutto) del governo; con l’inserimento di un ballottaggio posticcio nel caso in cui nessun partito superi una soglia di sbarramento piuttosto risibile.
La riforma pare proposta con alcuni intenti chiarissimi anche se taciuti: è tesa a eliminare dalla scena politica i partiti più piccoli attraverso una serie di sbarramenti di soglia di voto e aggregazioni con fusione forzate (in nome di una fantasmagorica governabilità); è voluta per indebolire fortemente il terzo grande partito diretto avversario, contando sulla sua difficoltà a correre da solo (senza dirlo a nessuno, però). Di senso della patria e di salvaguardia della democrazia, neanche a parlarne.
Nella sua genesi e nei suoi intendimenti è un esempio plateale di democrazia plebiscitaria extraparlamentare pubblicitaria personalistica, autoritaria e paternalistica, in cui due non eletti (uno destinato agli arresti domiciliari) che godono del favore imbelle di un elettorato dominato dalle viscere si accordano per spartirsi il potere politico eliminando di fatto ogni ostacolo e contando di poter vincere sull’altro in base a proprie elucubrazioni mentali (infondate, almeno nel caso dell’inevitabile perdente).
Il tutto è ammantato dall’orgasmica necessità di fare qualcosa, una qualsiasi cosa, pur di far vedere che si è in grado di decidere, proporre, cambiare, nella feticistica adorazione della governabilità attraverso le riforme incarnata nell’uomo (due uomini adesso) inviato dalla provvidenza divina che tutto muove.
Le difficoltà di questa legge, oltre al suo odore di rancido e alla sua periclitante costituzionalità, al suo destino manifesto di governi autoreferenziali decisionisti e intrinsecamente corrotti e inetti, sono tutte nel percorso parlamentare. Il primo ostacolo è costituito dai piccoli partiti, che non hanno alcuna intenzione di scomparire per compiacere la strana coppia. Il secondo ostacolo è il terzo competitore politico, che non ha nessun motivo per vedersi indebolito dagli altri due. Tutti si opporranno ad una riforma da cui avrebbero solo guai.
Vi sono poi le malformazioni congenite di questa pessima riforma plebiscitaria pubblicitaria. Prima fra tutte la pervicace negazione delle preferenze, già condannata nella purulenta decaduta legge elettorale in quanto per nulla democratica. Il patetismo della ventilata sostituzione delle preferenze con le primarie dei partiti è palese. Come se una votazione (mica tanto chiara) interna alle associazioni politiche potesse sostituirsi di fatto alla legge.
Su questo punto (delle preferenze mancanti) hanno già fatto sentire la loro voce, per ragioni puramente tattiche, i primi degli sconfitti, l’anguillissimo Letta (sempre nipote) e il maggiordomissimo Alfano (già delfino); sostenuti dall’immarcescibile cancelliere della sconfitta e dell’agguato il sottilissimo D’Alema (intramontabile). Tutti e tre hanno le loro ragioni. Il primo non vuole scomparire sotto il peso del giovanottone alla guida del partito democratico e vuol far vedere che non è facile neanche per gli altri fare quello che lui finora non ha neanche pensato di fare; il secondo cerca di arginare l’abbraccio mortale che i due pacchiani riformatori hanno intrapreso principalmente a sue spese, primo dei piccoli. Il terzo sommuove i parlamentari del proprio partito nell’eterna lotta interna di potere e vendetta con cui da trent’anni cerca l’autodistruzione, tendendo come suo solito agguati di corridoio e armando franchi tiratori.
Questo già senza ancora aver neanche cominciato a parlare dell’esautorazione del senato. E senza valutare appieno l’effettivo aumento di governabilità prodotto con questo sistema a liste bloccate, concorrenti ridotti, premi e consolazioni, in un sistema politico (italiano) farcito di camarille, cosche, clan, tresche, privilegi e soprusi incrociati.
A scapito della grancassa mediatica e delle fanfaronate, la pessima riforma del duo plebiscitario pubblicitario è già un aborto. E forse per questo passerà e verrà partorita tra radiosi sorrisi. Fino alla prossima sentenza della corte costituzionale, fra una decina d’anni. ★