Alla fine del neoliberismo

La più grande vittima del Covid-19

Nella débacle nazionale dell’emergenza pandemica, con gli arresti domiciliari dell’intero Paese trasformato in caserma di punizione per la proterva insipienza di patetici amministratori locali, per l’indolente crapula di masse imbelli, per l’inerte incapacità organizzativa connaturata, una notizia d’importanza cruciale è passata quasi inosservata.

Giovedì 11 marzo 2021, il presidente del consiglio dei ministri, Mario Draghi, con il ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, e i rappresentanti delle principali organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) hanno firmato a Palazzo Chigi il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale.

«Il buon funzionamento del settore pubblico è al centro del buon funzionamento della società. Questo è sempre vero, con la pandemia è ancora più vero» ha dichiarato il presidente. Il ministro Brunetta ha aggiunto che «inaugura una nuova stagione di relazioni sindacali» e che convocherà subito i sindacati «per avviare il negoziato in tempi brevi. È per noi il miglior segno di ripartenza».

Oibò! Perdindirindina! Perdincibacco! Eppure, dagli anni Novanta, dall’ascesa al potere del neoliberismo protosovranista di Papi Silvio Berlusconi, di cui Renato Brunetta è l’alfiere e, come dire, oggi l’avatar; e di cui Mario Draghi è il complementare deuteragonista superburocrate di un’Europa dei bilanci (per gli altri) e della ricchezza (di pochissimi); dagli anni Novanta la pubblica amministrazione e i sindacati sono i veri nemici del progresso e della libertà.

I sindacati: i nemici del popolo, i disfattisti del no, quelli che scioperano perché non hanno voglia di lavorare. Che rappresentano gente senza spina dorsale che lavora sotto padrone (o che finge di lavorare, nella migliore delle ipotesi) quindi residui di un’economia ottocentesca, da soffocare e seppellire per un radioso futuro di libertà.

Il pubblico impiego: la tana dei fannulloni (come diceva proprio Brunetta), degli imboscati, dei raccomandati; di quelli che timbrano il cartellino e vanno a fare le spese; da sanare con salassi profondi, da bloccare senza ricambio nei loro uffici ammuffiti, fino a che non diventino mummie rinsecchite.

E invece, come l’emergenza sanitaria e la catastrofe in atto (dopo un anno: siamo al punto di partenza, e non sappiamo bene come fare con questi benedetti vaccini) hanno dimostrato: la distruzione della sanità pubblica, del pubblico impiego, della rappresentanza sindacale, pervicamente voluta e astiosamente praticata in trent’anni di delirio liberista hanno portato il Paese alla più grande crisi sociale, economica, culturale, politica, morale della sua lunga (e spesso tristissima) storia.

 «La pandemia — ha detto Mario Draghi — e il piano di rilancio e resilienza richiedono nuove professionalità e nuove forme di lavoro. Nuove professionalità richiedono investimenti e nuove regole. Questo è quello che oggi stiamo cominciando»; e rivolto ai sindacati: «Nel corso delle consultazioni ho avuto modo di esprimervi quanto io tenga a questo confronto e questo dialogo».
 

Certo, ci vorranno molta fatica, molta pazienza, molti soldi e moltissimo tempo prima di vedere dei risultati positivi da una macchina che ha avuto, se li ha avuti, i suoi momenti di miglior rendimento ai tempi dei Savoia (o degli Asburgo, qui da noi, e prima ancora della Serenissima). Ma intanto.


 Se nel caso di Renato Brunetta (dispiace dirlo, ma è la verità) siamo di fronte al normale calabraghismo paraculista italico; nel caso di Mario Darghi siamo di fronte a una cosciente svolta politica, sociale, economica, culturale e morale di portata storica, forse obbligata ma comunque presa: l’inizio della fine del neoliberismo di Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Silvio Papi Berlusconi.
 
 Se siamo fortunati, visto i tempi che corrono, potrebbe essere anche una fine molto rapida. Ma non siamo fortunati. Abitualmente.
 
 

Alla fine del neoliberismo