Un gelido otto marzo

A pagare sono sempre le donne

Vengono i brividi a leggere alcune notizie. Secondo una recente ricerca, le donne guadagnano tra l’otto e il nove per cento di meno degli uomini. A parità di carriera, a parità di mansione, a parità di età. Ma non di sesso. La disparità di retribuzione si riduce un poco salendo la gerarchia del lavoro (tra gli operai il 9,5%; tra gli impiegati l’8,7; tra i quadri il 5%) ma il filtro del maschilismo italico riduce alla grande la percentuale di donne salendo la scala, rendendo impercettibile la variazione.

E comunque, secondo la ricerca, se si considera la retribuzione totale, che comprende la parte fissa più il variabile percepito, la differenza generale aumenta ed è pari al 9,1%. In più e inevitabilmente: gli uomini percepiscono anche un aumento medio delle retribuzioni maggiore rispetto alle donne. Secondo i relatori, le cause efficienti (che producono questo risultato) sono principalmente due: le interruzioni che per le donne si verificano in un numero più elevato rispetto agli uomini durante la loro carriera lavorativa, la mancanza di una cultura di genere che premi la diversità nelle aziende e la conseguente difficoltà per le donne ad accedere a posti di responsabilità.

Ma c’è di più. E di molto peggio.

In un altro studio statistico, invece, si apprende che il telelavoro da pandemia è in sostanza un lusso maschile e da redditi più alti: la forza lavoro femminile (e quella con minore retribuzione, che in sostanza coincidono) è concentrata in funzioni che difficilmente possono svolgersi da remoto. Con le misure di contenimento questi lavoratori hanno dovuto interrompere l’attività, perdendo reddito, o hanno dovuto esporsi ad un rischio elevato di contagio.

Nel maschio Nord-Est, e in particolare nel forse ancor più maschio Veneto, le cose vanno peggio che nel resto d’Italia: secondo l’Istat, nel terzo trimestre del 2020, rispetto alla fine del 2019, nel Nord-Est hanno perso il lavoro 69mila donne, mentre gli uomini, in alcuni casi, hanno persino lievissimamente recuperato occupazione. Il dato peggiore è quello del Veneto, con una riduzione del sette per cento. La causa efficiente è che la pandemia ha colpito i settori con una marcata presenza di lavoro femminile, come vaste aree del commercio e della ristorazione, il turismo, i servizi alla persona, gli appalti e simili.

E inevitabilmente la gestione dell’emergenza sanitaria nelle famiglie, dall’assistenza agli anziani a quella ai minori, mostra forti squilibri a danno della donna nella ripartizione dei carichi di lavoro familiare e domestico.

Le cause efficienti ci sono e possono essere molto faticosamente (anche) risolte.

La causa finale (il destino degli effetti) è che l’Italia è un paese retrogrado e maschilista, conformista e brutalmente ignorante. In cui il tasso di occupazione delle donne è uno dei più bassi in Europa: nel 2019 (senza virus) era al 50,1% contro il 68% degli uomini. In cui negli anni la mimosa da simbolo di libertà delle donne è diventato un omaggio maschile alla pari del bocòlo di San Marco: «ciàpa, te regalo ea mimosa, cussì ti sta bona fin l’anno prossimo».

In cui persino il presidente del consiglio non può fare a meno di dire: «Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi».

Brr.

Un gelido otto marzo