Gli Stati poco Uniti di Joe Biden

La sfida più impegnativa del nuovo presidente USA

Tra poche settimane gli Stati Uniti avranno un nuovo e mite presidente, e un vecchio e duro problema. Il democratico, politico per professione, Joe Biden sostituirà il repubblicano, professionista per politica, Donald Trump. Due presidenti molto diversi, come molto diversi sono i loro elettori. Diversi e divisi: e in contrasto assoluto e reciproco, come non si vedeva da un secolo e mezzo.

Gli Stati poco Uniti di Joe Biden.

COSMOPOLI — Il problema più sentito negli Stati Uniti è l’odio cieco che divide in due fazioni il Paese, e alla memoria tornano subito i tempi tragici della fratricida e sanguinaria guerra civile di centosessant’anni fa. I seguaci, perdenti, di Trump da una parte; i sostenitori, vincenti, di Biden dall’altra. Nessun dialogo tra le parti, solo accuse reciproche. E dalla parte dei trumpiani anche qualche arma da fuoco.

Non a caso il presidente entrante, nel suo discorso appena confermato eletto, ha chiesto ai cittadini di «unirsi» e «smettere di trattare gli avversari come nemici». E di sicuro il suo continuo appello all’unità della nazione durante la campagna elettorale, al contrario delle sparate divisive e inconsulte del suo avversario, ha contribuito di molto alla vittoria.

Ma ora che sta per arrivare il momento di governare, in molti negli Stati Uniti si chiedono se sarà veramente possibile unire una cittadinanza così aspramente divisa su temi fondamentali: differenze razziali, differenze sessuali, differenze economiche; il ruolo del Paese nel mondo; come affrontare il grandi problemi del presente e dell’immediato futuro.

Sono i temi di fondo in cui gli Stati Uniti sono invischiati da sempre. L’isolazionismo contro il destino manifesto di grande potenza (a volte l’unica). L’individualismo sfrenato contro la socialità e la fiducia reciproca (per gli europei a volte imbarazzante). La ricchezza immensa contro la povertà estrema. Il crogiolo fondente dei popoli contro l’indomito razzismo reciproco. La libertà dei costumi contro il fanatismo puritano.

In questi anni tutti i contrasti sembrano essersi radicalizzati nella presidenza Trump. Emblema quasi dimenticato della visione del mondo del presidente e dei suoi elettori: il muro contro il Messico. Una grande muraglia a difesa degli Stati Uniti, pagata dai messicani, in aggiunta e sostituzione della già esistente Barriera di Separazione, iniziata da George Bush senior nel 1990 e ripetutamente approvata dai governi successivi. Doveva essere in cemento armato, ci si accontentò del filo spinato. A fine gennaio 2020, alcune raffiche di forte vento ne hanno abbattuto una porzione, piccola ma grandemente simbolica.

Cavalcando le onde impetuose delle reti sociali, fino a pochi giorni fa Trump ha tempestato il mondo di messaggini razionalmente incomprensibili, ma visceralmente violenti ed efficaci, soffiando sul fuoco delle passioni e dell’odio di milioni di cittadini che hanno praticamente paura di tutto e disperatamente bisogno di certezza (la sua).

In quattro anni i suoi seguaci sono più motivati e decisi di prima: così come i suoi oppositori. Come in altri paesi (compresa l’Italia) il confronto politico si è spostato dalle idee sempre più semplici alle passioni sempre più primitive, e i partiti sono diventati fazioni. Ma al contrario degli europei (e forse soprattutto dell’Italia) gli statunitensi non hanno la stessa abitudine storica alla divisioni in fazioni sempre più piccole e tribali, agguerritissime e guerrafondaie ma riluttanti allo scontro.

In più, la divisione tra democratici e repubblicani non è una divisione tra destra e sinistra, tra bianchi e neri, tra ricchi e poveri, tra progressisti e conservatori. E forse nemmeno più tra simboli tradizionali: asino (democratici) ed elefante (repubblicani); o colori: blu gli asini e rossi gli elefanti.

Nelle ultime elezioni, tra i trumpiani (molti delle periferie e delle sterminate campagne) c’erano repubblicani inclini al conservatorismo fiscale, e sostenitori di politiche economiche progressiste a favore della classe operaia; c’erano i cristiani evangelici strenuamente contro l’aborto (sebbene il presidente sia un noto donnaiolo dalle mani lunghe); c’erano gli aderenti bianchi di America First, rumorosamente anti-immigrazione ma anti-corporativi come i liberali; i latini immigrati e gli afroamericani per i quali le politiche business is business rappresentano la via per il progresso economico e all’emancipazione sociale.

I sostenitori di Biden erano in maggioranza urbani e suburbani grosso modo uniti soprattutto dalla preoccupazione per la tragica gestione del COVID-19 dal parte del presidente uscente. C’erano democratici centristi e socialisti economici, neri contro il razzismo di sistema; membri della comunità LGBTQ che difendevano i loro diritti.

Ma i due campi spesso si sovrappongono e molti sono passati da una parte all’altra. Trump ha vinto più voti neri e latini di qualsiasi repubblicano negli ultimi sessant’anni. Ma milioni di evangelici che lo avevano votato nel 2016 quest’anno sono passati ai democratici, e a Biden. A causa della personalità di Trump ci sono state spaccature notevoli tra i repubblicani e un significativo gruppo di membri del Grand Old Party di alto profilo ha apertamente sostenuto Biden.

In un sondaggio dell’ottobre scorso una notevole maggioranza degli elettori, di un campo e dell’altro, desiderava che il vincitore rispondesse alle esigenze e necessità di tutti i cittadini, indipendentemente dallo schieramento politico (l’89% dei sostenitori di Biden e l’86% dei sostenitori di Trump). Alla fine hanno consegnato la Casa Bianca a Biden, che ha sempre sostenuto l’unità sopra i risentimenti.

Ora in molti si chiedono se sarà possibile per il nuovo presidente «di tutti» risanare un panorama politico trasformato in un ostinato confronto tra fazioni che si disprezzano profondamente e reciprocamente e si avversano sordamente per partito preso. Aver tolto di mezzo Donald Trump potrebbe essere già un timido passo avanti.

Gli Stati poco Uniti di Joe Biden