L’incultura costa molto di più
I carnevali di Maurizio Scaparro
Gran finale della rassegna Incroci di Civiltà ideata dall’Università veneziana di Ca’ Foscari e diretta da Flavio Gregori con un omaggio al regista Maurizio Scaparro. Maria Ida Biggi, storica del teatro, ha tracciato un affresco dell’attività della Biennale Teatro, il professor Piermario Vescovo, che è stato attore, ha rievocato il clima di quegli anni. Tra gli interventi del pubblico, il Priore de I Antichi, Luca Colferai, ha proposto l’abolizione del Carnevale attuale per sostituirlo con il Carnevale del Teatro. Pubblichiamo l’intervento del giornalista, scrittore e teatrante Roberto Bianchin.
VENEZIA – Ancora oggi, a più di quarant’anni di distanza, Maurizio Scaparro viene celebrato come il miglior regista dei Carnevali di Venezia in epoca moderna. Un giudizio pressoché unanime di critica e di pubblico, piuttosto raro ai giorni nostri, e particolarmente in una città litigiosa e brontolona come Venezia. Ma è un verdetto vero e giusto.
Paradossale però. E qui si celebra la prima delle contraddizioni. Perché, potrà sembrare strano, ma Scaparro non amava il Carnevale. Non dico che lo detestasse, semplicemente non gli interessava proprio. Non è una mia opinione. Lo scrive lui stesso, papale papale, nero su bianco, nella prefazione al libro Storia de I Antichi che racconta i primi venticinque anni di avventure della Compagnia de Calza «I Antichi», irriverente gruppo storico del Carnevale di Venezia, che lui adottò (artisticamente, s’intende), e da cui finì per essere adottato (affettivamente, s’intende). (Storia de I Antichi, Roberto Bianchin, Judith Bomfim, Luca Colferai, I Antichi Editori, 2006, www.iantichieditori.it).
Scaparro non amava il Carnevale ma era «interessato moltissimo» – scrive proprio così: «moltissimo» – all’uso teatrale del Carnevale. Cosa assolutamente diversa. Difatti il grande regista non ha fatto un Carnevale. Non ha fatto nemmeno il Carnevale di Venezia. Ha fatto il Carnevale del Teatro. Che è tutta un’altra creatura, tutto un discorso diverso, tutto un altro spirito, tutta un’altra logica. Un Carnevale del Teatro, elegante, bizzarro, sontuoso, dove tutto era pensato, progettato e realizzato unicamente nella dimensione teatrale, che è quella più consona alla città che lo ospitava. Dov’erano teatrali, o teatralizzati, anche i balli in piazza e nei campi, come le feste in maschera nei magnifici palazzi.
Dove non si ballava al ritmo di un qualche dj alla moda, ma dei Carmina Burana di Carl Orff suonati dal vivo dalla grande orchestra di René Clemencic. Dov’erano obbligatori, come antenati del green pass, la maschera e il costume per andare ovunque, a teatro come a palazzo come nei campi. Se non li avevi non entravi. In campo San Maurizio, sempre gremitissimo, teatro irripetibile degli aventi più immaginifici, gli Antichi avevano un servizio d’ordine da far invidia a quello di Lotta Continua. Lo stesso Scaparro si aggirava, come uno sciamano, in maschera e tabarro. Il maestro Donato Sartori gliene aveva confezionata una su misura, molto originale, che il regista – racconta Adriana Vianello, sua storica collaboratrice – tiene ancora adesso sul suo tavolo da lavoro. Piccolina, di cuoio color tabacco, copriva solo bocca e naso, e al posto della bocca aveva – invenzione geniale – una cerniera. Scaparro la chiudeva per non rispondere alle domande idiote di qualche giornalista e la apriva soltanto quando voleva dire qualche cosa. Come quando gli rimproveravano che i suoi Carnevali costavano troppo: «La cultura costa – apriva la cerniera – ma l’incultura costa molto di più». E con un guizzo molto teatrale la richiudeva svelto.
Non era solo un vezzo rendere obbligatoria la maschera. Serviva a entrare nella festa. A diventare personaggi. A far parte del gioco, non solo a guardarlo. A goderlo fino in fondo. A sentirsi protagonista e non più solo spettatore, per rispolverare uno slogan tanto caro al Sessantotto. Ma c’era anche un motivo più sottile: se sei vestito da cicisbeo, se hai il tricorno, la parrucca incipriata, lo jabot, le calze di seta, le scarpine di vernice tacco dodici, le unghie laccate e gli occhi bistrati, non ti vien la voglia di spaccare vetrine, dare bottigliate in testa al prossimo, fare la pipì contro i portoni, urlare parolacce agli attori sui palchetti.
Questa del Carnevale del Teatro – e non di un carnevale purchessia – è stata la prima grande intuizione di Maurizio Scaparro. La chiave del suo largo, meritatissimo, successo.
Perché il Carnevale del Teatro era ed è l’unico Carnevale possibile in una città come Venezia. L’unico degno della sua storia e delle sua cultura. L’unico rispettoso del suo ambiente. L’unico compatibile con la sua fragilità. Non a caso, nelle sue notti visionarie, Scaparro sognava di fare un giorno di Venezia “la città del teatro”. Un titolo al quale solo una città come questa poteva – e può – legittimamente aspirare.
Aver abbandonato l’idea teatrale, negli anni successivi, e aver lasciato degradare il Carnevale di Venezia – unico al mondo – a una modesta e spesso volgare sagra di paese, è stato un tragico errore. L’emblema grottesco di un fallimento figlio dell’inadeguatezza e dello scarso spessore culturale delle amministrazioni, sia pure di colore diverso, che si sono succedute alla guida della città.
Nulla contro le sagre di paese, sia chiaro. Al contrario, personalmente le adoro. Ma nei paesi, appunto, come dice la parola. Non in una Città Capitale, come Venezia è stata per secoli: capitale di uno Stato, ma anche capitale mondiale di cultura, d’arte e di spettacoli. Un ruolo che, qualora vi fosse la volontà di imboccare con decisione questa strada, potrebbe non esserle precluso anche per il futuro. (Venezia Capitale, dall’incubo virus al sogno proibito, Roberto Bianchin, La Toletta Edizioni, 2020).
Vi è poi un motivo identitario. Anche questo non di secondaria importanza. Ogni carnevale del mondo si contraddistingue per una caratteristica specifica: quello di Rio per la sfilata delle scuole di samba, quello di Nizza per la guerra dei fiori, quello di Asti per la battaglia delle arance, quello di Viareggio per la parata dei carri mascherati, e così via. Venezia si distingueva, ai tempi felici di Scaparro, per essere l’unica città al mondo ad avere un Carnevale del Teatro, perfettamente in linea con la sua grande storia teatrale, dove il protagonista assoluto era appunto il Teatro. Mica il Carnevale.
Tutta la città, che è già di per sé uno splendido teatro naturale, con tanto di quinte, fondali, palchi e sipari – per far teatro nei campi non c’è bisogno di nulla, basta solo recitare – diventava non solo un luogo teatrale. Diventava essa stessa teatro. Respirava e viveva teatro. Non c’era altro che teatro. Teatri aperti giorno e notte, sempre strapieni, spettacoli a mezzogiorno e a mezzanotte, teatri grandi e teatri piccoli tutti in attività, celebri e sconosciuti, al centro come in periferia, vecchi teatri riaperti e recuperati da un mesto declino a luci rosse, come lo storico Malibran, affidato alla cure di Gianni De Luigi, il migliore regista sulla piazza veneziana, autore tra l’altro di un pregevolissimo Ritorno di Casanova sul Ponte dei Pugni, e poi mille altri luoghi dove inventare teatro: chiese consacrate e sconsacrate, palazzi e musei, case e magazzini, calli e campielli, ponti e cortili e balconi, barche e vaporetti. Tutto un fervore di iniziative ovunque si andasse.
E in più, la sublime follia: la costruzione di un teatro nuovo di zecca: il Teatro del Mondo, firmato da un fuoriclasse dell’architettura come Aldo Rossi. Un’opera bellissima ma assolutamente inutile. Un teatro galleggiante, tutto di legno. Il trionfo dell’effimero. Della fantasia al potere. Si dondolava pigro sulle acque alla Punta della Salute, e tra Lindsay Kemp e Dario Fo, solo per dire due nomi, fu il luogo d’incontro delle culture del mondo, come dice il suo nome, del meticciato culturale, della contaminazione fra generi, della confusione dei linguaggi. Navigò persino, dopo il Carnevale. Attraversò l’Adriatico, novella barca dei comici, a unire i popoli delle due sponde nel nome di un linguaggio universale, comprensibile a tutti, come quello del teatro. Anche questo capolavoro dell’ingegno fu mestamente e colpevolmente abbandonato, segato a metà e presto marcito in un capannone della terraferma. Meritava di essere conservato in qualche luogo, per essere ancora utilizzato come teatro, si capisce, per essere visitato e studiato, simbolo di una stagione irripetibile. Ancorato all’Arsenale avrebbe anche potuto diventare il nuovo simbolo della città, accanto al campanile, come fu per la Tour Eiffel, che non nacque mica come monumento ma solo come effimera pubblicità per l’esposizione universale del mille e novecento.
L’altro elemento fondamentale del successo di Scaparro fu di essere riuscito nell’impresa – quasi impossibile – di far andare d’accordo i veneziani, quasi sempre litigiosi anche fra loro, con i disprezzati quando non anche apertamente odiati, foresti. Il regista non rinunciò a portare in laguna nomi importanti dello spettacolo internazionale, come qualcuno tra gli indigeni locali avrebbe stupidamente voluto e preteso – anzi portò i migliori, tra cui un raffinatissimo circo, quello à l’ancienne di Alexis Gruss che piantò le tende in campo Sant’Angelo – ma utilizzò, insieme alle star più acclamate, anche tutte le risorse disponibili in città: gruppi teatrali, dal Tag all’Avogaria, associazioni culturali, dalla Compagnia de Calza «I Antichi» alla Scuola Granda di San Marco ai Settemari, artisti, artigiani, famiglie, scuole e università, dando a ciascuno spazi e dignità alla pari dei grandi nomi fatti venire da fuori. Per questo riuscì a farsi accogliere dai veneziani come uno di loro, cosa di cui andava particolarmente fiero. Alcuni anni dopo venne nominato Compagno di Calza ad honorem nel corso di una spiritosa cerimonia. «Faccio fatica a spiegare a chi mi viene a trovare a casa il significato di quella calzamaglia colorata che spunta del cesto della biancheria», scrisse riguardo al simbolo degli Antichi che gli era stato donato e al quale si era particolarmente affezionato.
Viene proprio dalla Compagnia de Calza un esempio dell’internazionalità di Scaparro, che non si limitava a portare al Goldoni una compagnia inglese a recitare, in inglese appunto, La Guerra di Carlo Goldoni in un memorabile allestimento che aveva trasformato palco e platea del teatro in un vero e proprio campo di battaglia, ma affidava proprio ai veneziani della Calza, in combutta con i catalani Els Comediants, un formidabile gruppo di teatro di strada, la gestione di uno dei punti più delicati della grande festa, come la piazza di San Marco.
Ma a decretare il suo successo, prima ancora della sua indiscussa abilità, fu l’idea di chi decise di affidare la gestione del Carnevale a un uomo di teatro. Scelta non usuale, anzi bizzarra. Ma fu la prima grande intuizione. L’idea vincente. A Venezia non si faceva più Carnevale da duecento anni. Gli ultimi furono quelli del Settecento, sino alla fine della Serenissima Repubblica (1797), in un secolo che, a dispetto della decadenza e della caduta per cui è ricordato, fu ricchissimo di eventi culturali e teatrali. Sotto il dominio austriaco, dopo qualche tentativo poco felice, i Carnevali cessarono e nessuno li rimpianse. Fu nel Novecento, sul finire degli anni Settanta, che alcuni studenti dell’Istituto di Belle Arti cominciarono per divertimento, in tempo di Carnevale, a mascherarsi con delle lenzuola trafugate dai cassetti del comò e a tirarsi addosso uova marce e sacchi di farina. Stava esplodendo la voglia di ricominciare ad uscire e di riprendersi la città dopo la paura degli anni di piombo.
Queste pulsioni vennero fatte proprie da singoli cittadini veneziani, associazioni culturali, artistiche e teatrali, artigiani, costumisti e mascherai. La Compagnia de Calza, già citata, nacque proprio come Comitato Promotore del Carnevale di Venezia prima di diventare associazione culturale. Fermenti molto veneziani che riuscirono a convincere le autorità costituite a resuscitare il Carnevale di Venezia morto e sepolto da duecento anni. Fortuna volle che al governo della città ci fossero uomini assennati, come il Sindaco Mario Rigo, ma anche assessori come Mimmo Greco, Maurizio Cecconi, Domenico Crivellari, che si affidarono alla Biennale Teatro per fare il Carnevale anziché a qualche fittapalchi di poco prezzo. E fortuna volle che alla Biennale ci fosse un Presidente di altissimo livello come Carlo Ripa di Meana, e alla guida della Biennale Teatro un grande regista, e grandissimo organizzatore d’eventi, come Maurizio Scaparro. Il cocktail era perfetto. Esplosivo.
La strada così era segnata: spostare l’usuale festival di teatro della Biennale in tempo di Carnevale. L’uovo di Colombo. Si poteva e si doveva continuare su questa strada. Farlo era possibile. Il Carnevale di Venezia doveva restare il Carnevale del Teatro. Potrebbe tornare ad essere, se ce ne fosse la volontà, il Carnevale del Teatro. Magari dedicato e intitolato a colui che l’ha inventato.