Maya Express
Non posso fermare un treno in corsa
Scoppia la rivolta tra le popolazioni indigene del Messico contro il progetto di una mostruosa ferrovia lunga mille e cinquecento chilometri che intende collegare il sud all’est del paese abbattendo migliaia di ettari di foreste. Un insensato sogno di gloria del presidente Obrador. La necessità di richiamare alla lotta il Subcomandante Marcos. Il caso del Far West e l’impareggiabile lezione impartita dall’ex presidente dell’autostrada Serenissima.
COSMOPOLI – Il Messico non è solo pique e mariachi, siesta sombreri e mezcal. È quel simpatico Paese in cui se entri in un ufficio pubblico per chiedere un certificato, ti avvicini allo sportello e dici «buongiorno», può capitare di sentirti rispondere, da dietro lo sportello: «no». «È un Paese autoritario – lo dipinge lo scrittore Paco Ignacio Taibo II, nato in Spagna ma che ci vive da bambino – repressivo e deprimente, puzzolente e schifoso, ma anche ridicolo. E l’umorismo è un sistema di resistenza».
Ce ne vorrà molto, di humour, per riuscire a fermare il folle sogno del suo presidente, Andrés Manuel Lòpez Obrador, che in un delirio di onnipotenza, tanto più pernicioso in un simile momento di difficoltà e in un Paese molto povero, si è inventato l’apocalittico progetto di una mostruosa ferrovia che devasterà la cultura e le terre dei Maya, una delle civiltà più antiche del pianeta: mille e cinquecento chilometri di rotaie (non è un errore, avete letto bene, 1500 km), che attraverserà Chiapas, Tabasco, Campeche, fino alla penisola che si affaccia sul Golfo e sui Caraibi, collegando il povero e isolato sud al meno povero, quasi benestante est, con i suoi siti archeologici, i suoi monumenti aztechi, le spiagge dorate dello Yucatàn e di Quitana Roo.
Un’opera gigantesca, dal costo di sette miliardi di dollari (impensabile, tra l’altro, per un Paese profondamente indebitato), che Obrador considera il suo fiore all’occhiello: «il simbolo del Messico moderno». Per costruirla, è prevista la deforestazione di migliaia di ettari di verde. I terreni da scavare, le montagne di terra da rimuovere, le foreste e il verde da tagliare, cambieranno inevitabilmente l’assetto morfologico del Messico e spezzeranno irreparabilmente equilibri ambientali e umani secolari, portando alla scomparsa di villaggi, tribù, e intere popolazioni indigene, che non per caso sono scese sul piede di guerra insieme ai contadini. Bisognerebbe che dalla Selva Lacandona rispuntassero il passamontagna, la pipa e la pistola del Subcomandante Marcos.
Un copione triste, già visto. Il Far West finì, e cominciò l’America, proprio quando arrivò la ferrovia. Avventurieri senza scrupoli, ma col fiuto degli affari, avevano capito che il cavallo d’acciaio, come lo chiamavano i nativi americani, con una reverenza mescolata a un sacro timore, avrebbe portato soldi, tanti soldi: affari, lavoro, benessere, progresso. Il progresso spacca tutto. E non importava nulla se questo comportava il sacrificio di foreste e mandrie di bisonti, tribù e riserve indiane, con tutte quelle loro stupide tradizioni, poi. Il mondo andava avanti, correva verso il futuro, andava veloce, proprio come un treno, e non potevi fermarlo in alcun modo.
In Italia, lo spiegò con molta efficacia alcuni anni fa il democristiano Gianni Pandolfo, presidente dell’autostrada Serenissima, quando venne arrestato per Tangentopoli, e non attese un minuto per confessare tutto, inclusi i nomi di corrotti e corruttori: «Non posso mica fermare un treno in corsa col culo».
LA PAGELLA
Civiltà Maya. Voto: 8
Messico (inteso come Paese). Voto: 5
Paco Ignacio Taibo II. Voto: 8
Treno dei Maya. Voto: 4
Andrés Manuel Lòpez Obrador. Voto: 4
Subcomandante Marcos. Voto: 8
Far West. Voto: 8
Gianni Pandolfo. Voto: 7