Panic room 13
Io mi fermo qui
«Panic room» da oggi chiude. Sperando di non dovere più riaprire. Non ha più senso, ora che ritroviamo in qualche modo la libertà, pure mutilati da distanze e mascherine, continuare a stare a rimuginare chiusi in una stanza in preda al panico. Ci siamo fatti compagnia in questi tre mesi, ci siamo fatti delle domande e abbiamo anche tentato di darci qualche risposta, giusta o sbagliata che fosse. Quando ho scritto la prima «Panic room» i morti in Italia per coronavirus erano sette, oggi più di trentamila, speriamo di non doverne contare ancora molti. Ringrazio quanti mi hanno letto e quelli che mi hanno scritto, d’accordo o meno che fossero. Ma la vita prosegue: se «Panic room» chiude, «Il Lunedì» invece continuerà, come fa da anni, e tornerà ad occuparsi di altre storie. Magari più divertenti.
Sì, io mi fermo qui, come cantavano i meravigliosi Dik Dik (1970, autori Luigi Albertelli e Enrico Riccardi). Nel senso che non ha più senso, oggi che ritroviamo in qualche modo la libertà, pure mutilati da distanze e mascherine, continuare a stare a rimuginare chiusi in una stanza in preda al panico.
Per questo “Panic room” da oggi chiude, sperando di non dovere più riaprire. Dodici lunedì fa, quando scrivevo la prima di queste tredici stanze, i morti per coronavirus in Italia erano “solo” 7. Oggi sono più di trentamila, 315.000 nel mondo. Speriamo non doverne contare ancora molti.
Ci siamo fatti compagnia in questi tre mesi, abbiamo analizzato, esaminato, discusso, ci siamo fatti delle domande e abbiamo tentato di darci qualche risposta, giusta o sbagliata che fosse. Ringrazio quanti mi hanno letto e quelli che mi hanno scritto, quelli che hanno condiviso e quelli che mi hanno contestato. Opinioni differenti sono il sale della democrazia. Quando sono espresse civilmente. “Il Lunedì” invece continuerà, come fa da anni, ma tornerà ad occuparsi di altre storie. Magari più divertenti.
Chiudo con un pensierino rivolto allo Stato italiano. Sì, a questo Stato “deriso e sputacchiato, farraginoso e obsoleto, al quale tutti, d’improvviso, ci siamo rivolti perché ci dicesse che accidenti dovevamo fare”, come scrive, sempre acutamente, Michele Serra sulla sua “Amaca” (La Repubblica del 15 maggio 2020). Uno Stato dal quale nessuno si aspettava più niente, e dal quale adesso “chiunque pretende quattrini, garanzie, salvezza, cura. Compreso chi, allo Stato, ha dato zero, considerandolo appena un impiccio alle sue fortune personali”.
Già. Oggi tutti chiedono soldi allo Stato. A causa del coronavirus. Magari approfittando del coronavirus. Mica tutti, per carità. Ma alcuni, di sicuro, sì. Ma come può un’azienda, magari un’azienda grande, un’azienda di quelle fino a ieri ritenute “solide e serie”, essere ridotta a chiedere l’elemosina, dicendo che non ha più una lira in cassa, dopo “appena” due mesi di chiusura? Dove ha messo (nascosto?) gli ingenti profitti degli anni passati quando le vacche erano grasse? Andrei a vedere nei conti correnti, anche in quelli strategicamente piazzati all’estero, quanti soldi ci sono, prima di dare un euro a qualcuno.
Anche chi odia lo Stato, dice Serra, oggi pretende il suo soccorso. “Alle favolose fortune private, con i loro centri studi e la loro spocchia manageriale, nessuno ha chiesto niente, forse perché nessuno si aspettava niente. E’ all’edificio oscillante dello Stato che, in tutto il mondo, la paura di morire ha ricondotto gli uomini. Alla sanità pubblica. Ai provvedimenti di legge. Alle risorse comuni”.
Non mi stava particolarmente simpatico il Premier italiano quando faceva la riverenza al bullo del Papeete. Adesso che quasi tutti i giorni, come scrive sempre Serra, è costretto a dare una risposta a sessanta milioni di domande, dalla riapertura dei parrucchieri al futuro dell’industria pesante, dal distanziamento degli ombrelloni ai soldi per chi ha fame, dai miliardi garantiti dall’Europa al bonus baby sitter, mi suscita un sentimento che assomiglia alla comprensione. Stavo per scrivere compassione.
Buona fortuna a tutti.