Non voto più
Non è stata colpa del tempo. Neanche della fatalità. E nemmeno del fatto che «forse avevano altro da fare», secondo un modo di dire molto caro al gentiluomo napoletano Fefè Indolfi, raffinato uomo di penna. È che proprio non hanno voluto andarci alle urne, domenica scorsa, per andare a votare i nuovi governatori dell’Emilia-Romagna e della Calabria.
Si può discutere a lungo, e in effetti si discute, sui motivi del rifiuto. Non tanto in Calabria, dove l’antico rito, per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare qua, non è mai stato praticato più di tanto, quanto in Emilia-Romagna, dove i dati dell’astensionismo sono clamorosi, specie se confrontati con quelli del passato della terra del comunismo ai tortellini, in cui truppe cammellate di valorosi compagni marciavano compatte verso le sezioni elettorali tributando percentuali bulgare all’allora partito della falce e del martello.
Se oggi non è più così, e non è più così, qualche motivo ci sarà. Sarà lo schifo per la politica, la sfiducia verso i partiti, l’indignazione per gli scandali giudiziari, lo scarso richiamo dei candidati (tutte cose vere), o sarà quello che volete, fatto sta che se la gente non va più a votare in una regione tradizionalmente affezionata al voto come quella emiliano-romagnola, vuol proprio dire che nel rapporto fra cittadini e politica, fra cittadini e istituzioni, qualcosa si è spezzato. E forse irrimediabilmente.
Ha un bel dire, il giovanotto Renzi, che quello dell’affluenza è «un problema secondario», e che quello che conta è la vittoria di Pirro di due governatori due al centrosinistra. Farebbe meglio ad ascoltare l’anziano Prodi, secondo il quale invece un astensionismo così alto «è un dato preoccupante che segnala malessere».
E il malessere è profondo. Prendete l’Emilia-Romagna, per l’appunto. Ha votato appena il 37,67 per cento degli abitanti aventi diritto al voto. La volta precedente era andato alle urne il 68,06. Significa che ha perso per strada quasi la metà dei propri elettori. Un tracollo vero e proprio. Anche in Calabria è andata alle urne meno della metà della popolazione: il 44,07 per cento contro il 59,26 delle scorse elezioni.
E guardate i voti che ha preso il nuovo governatore del Pd Stefano Bonaccini: il suo 49 per cento è, ovviamente, il 49 per cento di quel 37 per cento che è andato a votare. In numeri, significano 600 mila voti su un totale di tre milioni e mezzo di elettori. Vuol dire che Bonaccini è il governatore di 18 cittadini su 100. Davvero un po’ pochino. Ma quanto basta per cominciare a riflettere seriamente, molto seriamente, invece di cantare a vanvera vittoria.
Questo anche perché, al di là delle vittorie di Pirro, tassi così alti di astensione pongono un problema molto più serio e molto più profondo: quello del rapporto dei cittadini con la democrazia. Perché non è stato ancora inventato un sistema diverso e migliore, rispetto alle dittature, che non sia quello democratico. E il sistema democratico è basato sul sistema dei partiti politici e delle libere elezioni, dove chi prende un voto in più governa. Astenersi, per protesta, per scelta ideologica o altro, è assolutamente legittimo: è la democrazia, appunto, che lo permette. Ma astenersi significa anche delegare ad altri la scelta delicata di chi mettere al governo. Solo votando si può cambiare. Se non andate a votare, poi non lamentatevi.
Il voto è un filo che ci lega alla democrazia, spiega inascoltato l’anziano Romano Prodi: «Si può essere scontenti o delusi, ma se si rinuncia a votare, si rinuncia a qualcosa di importante». Già. Perché salvo casi straordinari, il voto è uno strumento efficace di democrazia. L’unico capace di garantirla. Dove il voto non c’è, non si fa festa. Perché resta solo il buio della dittatura. ★