Sopprimerli

Il silenzio, sul treno che va da Milano a Venezia, è angosciante. Che strano. Sarà che non siamo più abituati al silenzio, oggidì c’è rumore dappertutto: dai bar ai negozi, dai supermercati ai centri commerciali. Perfino nelle botteghe di barbieri e calzolai sparano musicaccia raccapricciante ad altissimo volume. In treno no. Non si sente neanche il rumore che fa lui, quei convogli chiamati frecce oggi non ne fanno quasi più. Altro che il ciuf ciuf di una volta.

C’è un silenzio catacombale, eppure il treno non è vuoto. Guardo meglio. Anzi. È tutto pieno. Non c’è un posto libero. Cosa sarà successo? Niente. Stanno leggendo. Tutti? Tutti. Leggono tutti. Gli occhi bassi, come scolaretti. Che bravi. Però. Un momento. Riguardo con attenzione. Sì, dalla posizione degli occhi si direbbe proprio che stiano leggendo. Ma nessuno di loro ha in mano un libro. Nessuno di loro ha in mano un giornale.

Cosa leggono, allora? Un telefonino, leggono un telefonino. Uno è grande, uno un po’ più piccinino, uno è un tablet, un altro un ipad, un altro ancora un computer. Insomma, leggono qualcosa su uno schermo. Ma più che leggere scrivono. La più parte scrive continuamente. Specie i più giovani. Digitano per l’esattezza, così si dovrebbe dire. Chissà cosa scrivono e a chi. Chissà cosa ci sarà di tanto urgente da comunicare di continuo. Ogni tanto qualcuno fa una smorfia, qualcun altro invece sorride. Forse hanno ricevuto cattive notizie o forse hanno vinto un premio.

Sono tutti così impegnati a premere di continuo dei tasti che non si accorgono nemmeno in che stazione è arrivato il treno. Che si dimenticano di scendere. Che non sanno che paesaggio c’è intorno. Se siamo in campagna o in città. Se è bello o brutto. Se piove o c’è il sole. Che non vedono chi sale, chi scende e chi siede loro accanto. Che non si accorgono che hanno rubato le valigie.

Questo dura per un po’. Poi ad un certo punto, come se qualcuno avesse dato un segnale nascosto, si scatena il delirio. Quasi collettivo. Simultaneo. Perché appena comincia a suonare un telefonino, e le suonerie sono altissime e diversissime tra loro, e comunque tutte insopportabili, dalla cavalcata delle valchirie alla sigla di carosello, dalla fanfara dei bersaglieri allo sciacquone del bagno, dal rutto alla scorreggia, la pace finisce d’incanto. Tutti cominciano a parlare a voce altissima scatenando un bordello irrefrenabile. Un frastuono che invoglia imperioso ad imbracciare un mitra o a scendere alla prima fermata qualunque essa sia.

Per ritrovare la pace bisogna andare al ristorante. Sono scomparse quelle trattorie caciarone di una volta, oggi sembra di entrare in un ospedale. Anche lì sono tutti silenziosi, tutti concentrati, più che sul menu, sui loro telefonini. L’altra sera a Milano (zona Porta Venezia), ho visto una coppia a un tavolo vicino al mio. Una coppia giovane, un lui e una lei, bellocci, elegantini, sulla trentina, forse anche meno.

Non si sono parlati per tutta la sera. Forse non avevano niente da dirsi. O forse non avevano più niente da dirsi. Forse la loro storia stava finendo, o forse era già finita. Stavano tutti e due con gli occhi bassi sui loro telefonini. A scrivere continuamente messaggini e a rispondere continuamente ai messaggini. Chissà con chi. A un certo punto ho anche pensato che si messaggiassero tra loro.

Che tristezza. Vivono vite virtuali invece di vivere vite vere. Chissà se si può fare qualcosa per ricondurli alla realtà. Probabilmente no. O forse sì. Sopprimerli. I telefonini s’intende. Come disse una volta l’inarrivabile Conte Emile Targhetta d’Audiffret de Greoux, autentico faro di saggezza, a proposito di alcuni fanciulli particolarmente molesti che durante la passeggiata mattutina si divertivano a calpestargli lo strascico del suo lungo e prezioso mantello.

Il conte Emile Targhetta d’Audiffret de Greoux.

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