Panic room 9

Gli indovini del virus

I contagi da coronavirus cominciano a calare. Buon segno. E si comincia a sentire nell’aria una certa frenesia. Un’impazienza mal contenuta. Una prepotente voglia di uscire. Di viaggiare. Andare a teatro, al bar, al ristorante. Abbracciare qualcuno. Tutto legittimo. Si studiano mille stravaganti modi di ripartire. E c’è anche chi, spronato dall’entusiasmo, si spinge persino a fissare le date, regione per regione, in cui non vi saranno più nuovi casi di contagio. Che meraviglia. Bello e rassicurante avere queste certezze in un momento così. No, non si tratta di indovini, ma di scienziati. Speriamo davvero abbiano ragione. Però segnatevi le date. Perché andremo a verificarle. Una per una.

Otto lunedì fa, mentre scrivevo la prima “Panic room”, e non avrei mai pensato che avrei dovuto scriverne così tante (non ne scriverò più quando non vi saranno più contagi), i morti in Italia per coronavirus erano 7. “Solo” 7. Sette lunedì fa, erano saliti a 41. Sei lunedì fa, a 463. Cinque lunedì fa, a 2.158. Quattro lunedì fa, a 5.476. Tre lunedì fa, a 11.591. Due lunedì fa, a 16.523. Lunedì scorso, a 20.465. Oggi, lunedì 20 aprile 2020, sono diventati 24.114. Nel mondo, si contano 165mila morti. Andrà tutto bene?

Fortuna che i contagi cominciano a calare. Buon segno. E si comincia a sentire nell’aria una certa frenesia. Un’impazienza mal contenuta. Una prepotente voglia di uscire. Di viaggiare. Andare a teatro, al bar, al ristorante. Abbracciare qualcuno. Tutto legittimo. C’è chi, spronato dall’entusiasmo, si spinge persino a fissare le date in cui non vi saranno più nuovi casi di contagio. Che meraviglia. Bello e rassicurante avere queste certezze. No, non si tratta di indovini, anche se non so in quale sfera di cristallo o palla di lardo hanno letto. Sono scienziati, o almeno così pare. Sono quelli dell’”Osservatorio nazionale sulla salute”, un organismo (sul conto del quale altro non saprei dirvi), diretto da un docente di igiene che –leggo- risponde al nome di Walter Ricciardi. Segnatevi questo nome e queste date. Perché andremo a verificarle una per una, se non altro per capire chi dovremo andare a prendere a schiaffi.

Dunque, i primi che si libereranno dal contagio –e prestissimo, il 21 aprile, domani nientemeno! (non è detto a che ora, però)- saranno quelli che abitano in Umbria e Basilicata. Il 26 aprile toccherà al Molise. Il 29 alla Sardegna, il 30 alla Sicilia. Il primo maggio farà festa la Calabria. Il 7 maggio, l’Abruzzo e la Puglia. Il 9 la Campania. Il 12 il Lazio. Il 13 la Valle d’Aosta. Il 14 la Liguria. Il 16, la provincia di Trento. Il 19, il Friuli-Venezia Giulia. Il 21, il Veneto e il Piemonte. Il 26, la provincia di Bolzano. Il 29, l’Emilia-Romagna, il 30 maggio la Toscana. Infine, buoni ultimi, le Marche il 27 giugno e l’impestatissima sciagurata Lombardia il 28 giugno. Sarà vero? Se sarà davvero così mi prenderò a schiaffi da solo davanti allo specchio. Giuro.

E’ appassionante, nella sua demenzialità, anche il dibattito su come riapriremo il Paese dopo la disfatta. Se ci saranno aperture differenziate regione per regione. O magari anche città per città, paese per paese, quartiere per quartiere, condominio per condominio. Se usciranno prima i giovani e poi le donne, gli uomini di mezza età, e da ultimi i vecchi, con la scusa che “sono più fragili” e perciò vanno protetti, mica lasciati morire come tordi in case di riposo che hanno nomi angelici, anni azzurri, sereni orizzonti, ma sono popolate da incubi.

Ci sono sindaci e governatori di questo Belpaese che meditano ordinanze per vietare (a chiunque, tutti sono possibili untori) l’ingresso nel proprio territorio. Non è chiaro se metteranno fili spinati, barriere metalliche, muri in cemento o cavalli di frisia, e guardie e cecchini armati con licenza di sparare a vista. Stiamo assistendo a un delirio di stravaganti proposte fai da te. Ciascuno in ordine sparso che s’inventa una cazzata.

C’è chi vuol fare riaprire le fabbriche, i negozi, i bar, i ristoranti, le discoteche e le sale bingo, i parrucchieri e le palestre, e chi no. Chi dice che bisogna continuare a usare mascherine e guanti e chi sostiene che non servono a una mazza. Chi dice che bisogna stare a un metro di distanza, chi a uno e mezzo, chi a uno e ottanta (perché poi uno e ottanta?), chi a due, chi a cinque. Chi dice che bisogna lavorare sette giorni, chi quattro. Chi solo di notte. Chi dice che puoi mandare i bimbi a giocare in cortile e chi no. Che si potrà andare in spiaggia ma solo a numero chiuso e sarà vietato spogliarsi e bisognerà restare con la tuta da astronauta e lo scafandro in testa come nelle terapie intensive. Che non si potrà fare il bagno perché il coronavirus sguazza nell’acqua non potabile (a Parigi lo hanno scoperto che si nascondeva proprio lì, e come la mettiamo con la storia che bisogna lavarsi sempre le mani?). Che si potrà andare al ristorante ma bisognerà mangiare tenendosi la mascherina. Che al bar si potrà bere il caffè ma restando in piedi su una sola gamba.

Insomma, una pazzia dietro l’altra. Meglio sarebbe se ciascuno la smettesse di sparare cazzate (anche in Comuni e Regioni), e il Paese parlasse con una voce sola (quella del governo inevitabilmente, piaccia o no, si sia d’accordo o no), e stabilisse misure, condizioni e tempistiche uguali per tutti, al Nord come al Sud, e per ogni età e fascia sociale. Se si sbaglia, almeno sbaglieremo tutti, non vi saranno privilegi e non vivremo situazioni paradossali, ridicole e assurde, che potrebbero rischiare anche di degenerare, dato il momento che viviamo e il nervosismo che lo attraversa.

Per quanto mi riguarda, personalmente ho già deciso la mia strategia di uscita. Io continuerò a restare a casa (dove grazie al cielo non mi manca nulla), fino al giorno in cui apparirà il numero zero nella casella dei morti e dei malati. O almeno fino al giorno in cui non avranno trovato un vaccino che funzioni davvero. A tutti gli altri, i più sinceri auguri.

Un'indovina al lavoro (fonte: iphoneitalia.com).

Panic room 9