La convertita
Miracoli africani
Non va criticata per essersi convertita all’islam la volontaria italiana rapita in Africa e liberata dai servizi segreti italiani, somali e turchi. Ognuno ha il diritto di convertirsi a qualsiasi religione in qualsiasi momento e luogo e per qualsiasi ragione. Anch’io, fossi stato prigioniero di una banda di tagliagole da un anno e mezzo, mi sarei convertito a qualsiasi cosa. E’ profonda e sincera la gioia per il ritorno in libertà della ragazza. Ma lasciamola stare. Dimentichiamola, adesso. La sua conversione, reale o imposta che sia, torni ad essere, come dev’essere, come devono essere tutte le conversioni, un fatto squisitamente privato, soltanto suo. Spegniamo i riflettori sulla convertita, per favore. Spontaneamente. Per pietà.
Spegnete i riflettori sulla convertita, per favore. Per pietà. Ciascuno ha il diritto di convertirsi in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo e per qualsiasi ragione, a qualsiasi religione, dal taoismo all’induismo, dal buddismo al confucianesimo, senza bisogno di doverne rendere conto a nessuno. La conversione, come la fede, la religione, è un fatto privato, talmente intimo che sarebbe meglio rimanesse tale. Anche perché può non interessare granché se ti sei convertito all’islam o se ti sei iscritto alla chiesa cristiana degli avventisti del settimo giorno.
La volontaria italiana rapita in Africa da una banda di tagliagole e liberata dai servizi segreti italiani, somali e turchi (dietro pagamento di un riscatto, è evidente, ma una vita umana va salvata a qualunque prezzo, proprio perché non ha prezzo), ha detto di essersi convertita all’islam durante la prigionia. E’ stata la prima cosa che ha detto appena sbarcata in Italia. Come se fosse la cosa più importante da dire. Prima di ogni altra. No, non il racconto di un anno e mezzo di prigionia, le emozioni, le ansie, le paure, le minacce, forse qualcos’altro. No, la conversione.
C’è qualcosa che stride. Stride il rifiuto di cambiarsi d’abito prima dello sbarco e di rimettersi dei vestiti occidentali. Stride l’ostentazione, palesemente forzata, di mostrarsi a tutti, ai fotografi, alle televisioni, con quel mantello addosso, un hijab, e quel velo, verdi come il colore dell’islam. Stride l’annuncio immediato della conversione. Stride ancor di più quell’affermazione, fatta subito dopo, senza che nessuno glielo chiedesse (excusatio non petita…) di essersi “convertita spontaneamente”. Come ripetesse un copione prestabilito, imposto come condizione necessaria, indispensabile, per la scarcerazione.
Non va criticata per questo. Non cambia la gioia, profonda e sincera, per il fatto che sia viva e sia tornata in libertà. Ma lasciamola stare. Dimentichiamola, adesso. La sua conversione, vera o imposta che sia (anch’io fossi stato prigioniero di una banda di tagliagole da un anno e mezzo mi sarei convertito a qualsiasi cosa), torni ad essere, come dev’essere, un fatto privato, soltanto suo. Spegniamo i riflettori sulla convertita, per favore. Per pietà. Spontaneamente.