Serenissimo naufragio
Per più di mezzo secolo Venezia è stata l’isola rossa del Veneto bianco. La città dove anche le contesse e gli architetti votavano comunista senza imbarazzi. Come i gondolieri e gli operai di Porto Marghera. Adesso non è più così. Anche la città che fu Serenissima è tornata normale. Si è omologata al resto della regione, un ventre molle, moderato, cattolico, prima democristiano e poi leghista, dal quale aveva sempre preso altezzosamente le distanze.
Fin dai tempi lontani della Liberazione, dalla prima giunta comunale guidata dall’avvocato del Pci Giovan Battista Gianquinto detto Giobatta, un fior di galantuomo, Venezia era sempre stata governata da amministrazioni comunali di centrosinistra (Dc-Psi) o di sinistra (Pci-Psi). Ultima, quella che andava dall’Udc a Rifondazione, capitanata da un altro avvocato, il cattolico di area Pd Giorgio Orsoni, caduta lo scorso anno, con l’arresto dello stesso primo cittadino, sullo scandalo delle tangenti per le dighe contro l’acqua alta.
E proprio lo scandalo delle dighe è stata la goccia, l’ultima, che ha fatto traboccare il vaso, già strapieno, delle insoddisfazioni e delle lamentele. I veneziani, bocciando il senatore già magistrato Felice Casson, candidato del centrosinistra, hanno dato un segnale secco. Preciso. Hanno voluto punire il centrosinistra, e soprattutto il Pd, ridotto ormai a non contare più nulla, costretto alla miseria di soli tre consiglieri comunali. L’hanno punito per la corruzione, certo. Ma anche, e soprattutto, per il fallimento della sua politica: per come ha governato, o per meglio dire non ha governato, la città nell’ultimo ventennio. Per come l’ha ridotta. Il disastro è sotto gli occhi di tutti.
Stanca, delusa, sfiduciata, la città, buttato a mare il centrosinistra, si è aggrappata al faccione rassicurante di Luigi Brugnaro, un veneziano ruspante di terraferma, figlio di un poeta operaio di sinistra, un uomo che si è fatto da solo costruendo una ditta che compra e vende lavoro, e una squadra di basket capace di lottare per lo scudetto. L’hanno votato perché è simpatico e stravagante. Un po’ fanfarone e un po’ spaccone. Perché non ha un partito, ma ha costruito in un solo mese una sua lista civica color rosa fucsia. Perché pur appoggiato da tutte le destre, Forza Italia, Lega, Ncd, Udc, Fratelli d’Italia, dice di non essere di destra ma neanche di sinistra, indica Matteo Renzi come suo modello quand’era sindaco di Firenze, e propone di portare in giunta anche esponenti del Pd, ma del Pd renziano. Un personaggio atipico, insomma.
Non è semplicemente una svolta a destra, dunque. Tantomeno un laboratorio politico, come sostiene molto arditamente Stefano Folli su Repubblica. È piuttosto una sonora bocciatura per il centrosinistra. E, di conseguenza, una fiducia concessa (provvisoriamente) a un imprenditore piuttosto fuori dagli schemi. Tutto perfettamente logico. Nessuna sorpresa, per chi conosce la città.
Quello che stupisce, casomai, e un po’ anche inquieta, è che il neo Sindaco Brugnaro è un Doge zoppo. Nel senso che è stato eletto da appena la metà della metà dei cittadini: su duecento e undicimila veneziani aventi diritto al voto, lui di voti ne ha avuti cinquanta quattro mila (quaranta sette mila il suo avversario). È il Sindaco, in sostanza, solo del venticinque per cento dei veneziani.
È il dato, al di là di chi ha vinto e di chi ha perso (Brugnaro 53,21%, Casson 46,79%), che deve far riflettere maggiormente. Perché a Venezia è andata a votare meno della metà dei veneziani: cento e tre mila su duecento e undici mila. Vuol dire che è ormai altissima la sfiducia verso i partiti e le istituzioni. E sono altissime anche la delusione, l’amarezza e la rassegnazione.
Come se la battaglia per salvare Venezia dall’alluvione di un turismo straccione e volgare, dal degrado e dalle mafie, fosse ormai perduta. Come se non ci fosse più niente da fare. Come se non importasse più chi la governa. Come se le battaglie che restano fossero solo di testimonianza.