Lacrime di coccodrillo
per giornali defunti
Prima, nell’indifferenza quasi generale, aveva chiuso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione Comunista (ultimo direttore il mondano televisivo Piero Sansonetti), che faceva il verso, senza riuscirci granché, al francese Liberation che fu di Jean Paul Sartre. Non se la passa benissimo anche lui, per la verità, ma in qualche modo è ancora vivo, forse anche grazie all’idea, stravagante ma non troppo, di trasformare la redazione in un bistrot, per guadagnare dai pastis quello che non incassa più dalle edicole.
Poi, sempre nell’indifferenza quasi generale, ha chiuso L’Unità, lo storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci, che fu del Pci, e adesso era del Pd, di cui Renzi non sapeva proprio più che farsene, ritenendo largamente bastevoli ai suoi fini le sue doti di comunicatore. In realtà Renzi ha sempre detestato L’Unità, proprio perché espressione, nell’impostazione come anche nella redazione, di quel vecchio Pci che lui, che comunista non è mai stato, sta ancora facendo di tutto per rottamare, senza però mai riuscirci completamente.
Adesso, a segnare il momento terribile che contrassegna l’editoria quotidiana in Italia, in crisi di credibilità ma soprattutto in calo verticale e inarrestabile di copie vendute e di introiti pubblicitari, arriva la notizia della chiusura di altri due quotidiani: Europa e La Padania. Europa, espressione di un partito che non esiste più, quello post-democristiano della Margherita confluita nel Pd, era per l’appunto il secondo quotidiano del Pd: quello più centrista, più moderato, più cattolico.
Orbene, era un assurdo, oltre che un inutile lusso per il Pd, disporre addirittura di due quotidiani, espressione delle sue due principali correnti, quella ex comunista e quella ex democristiana. Ma è ancora più assurdo che il maggior partito italiano, che è anche il più grande partito europeo di centrosinistra, non disponga più di un quotidiano. Discorso diverso per La Padania, quotidiano della Lega Nord, voluto fortemente da Umberto Bossi quando era all’apice della sua fortuna e del suo potere. La Padania ha sempre venduto pochissime copie (anche Europa del resto, anche Liberazione, solo L’Unità con la diffusione militante toccava la domenica il record del milione di copie), anche quando la Lega prendeva moltissimi voti nelle lande nordiste. E se non la leggevano nemmeno i militanti, qualche motivo ci sarà stato.
Non è un caso che queste chiusure – Liberazione, L’Unità, Europa, La Padania – riguardino tutte quotidiani di partito. Segno preciso della distanza che ormai separa i cittadini dalla politica. Segno che si tratta di giornali che non si reggono più in piedi da soli senza i contributi che lo Stato, oberato da urgenze più pressanti, e sempre più in bancarotta, ha deciso di togliere all’editoria.
E qui si apre un dibattito aspro, anche se per la verità non inedito, e mai risolto: è giusto che lo Stato finanzi l’editoria con contributi pubblici? Si potrebbe fare una distinzione, al riguardo, tra giornali commerciali (non fate l’errore di chiamateli liberi o indipendenti, per carità, perché non esistono), e giornali di partito. Sostenendo che i giornali di partito, che muovono le idee (o almeno dovrebbero farlo), avrebbero più diritto ad essere finanziati dei giornali che invece parlano dei tradimenti delle dive e delle supposte che vanno di moda.
Distinzione capziosa. Oziosa. E inutile. In passato lo Stato finanziava giornali di tutti i tipi, anche quelli inesistenti e quelli clandestini, sia perché c’erano più soldi in giro (e nessuno si preoccupava se andava ad aumentare il debito pubblico), sia perché, o soprattutto perché i partiti di governo avevano interesse a tenersi buona la totalità della stampa, fosse o no di regime.
Oggi che i tempi sono cambiati, lo Stato non dovrebbe più finanziare in alcun modo l’editoria. L’editoria è un prodotto, una merce che si vende. Non dovrebbe avere contributi pubblici. Lo Stato dovrebbe pensare a finanziare la cultura e l’istruzione, i musei e le scuole, le biblioteche e gli eventi. Non i giornali, che sono di proprietà privata, e ogni proprietà (imprenditoriale o politica che sia) ha i propri obiettivi e i propri motivi per pubblicare un giornale.
Se un giornale, commerciale o di partito, di pettegolezzi o di sport, non riesce a sopravvivere perché nessuno lo compra, vuol dire che è un prodotto sbagliato, che non sta sul mercato. Quindi è giusto che chiuda. Senza troppe lacrime di coccodrillo. ★