La finestra di
Giorgio Bocca

Dammi una finestra, ragazzo. Dammi una finestra, che devo capire quella piazza e non ho tempo. Queste parole mi hanno insegnato qualcosa e mi sono rimaste per anni nella testa. Mi tornano in mente adesso che Giorgio Bocca se n’è andato per entrare in altre storie.

Erano i primi anni ottanta, in Alto Adige scoppiava l’ultima stagione delle bombe sudtirolesi. Eugenio Scalfari, che allora dirigeva Repubblica, aveva mandato a Bolzano, per scrivere della cosa, una delle sue firme migliori, Bocca, e una delle sue firme più giovani, la mia. Lavorare al fianco di quello che consideravo un maestro del mio mestiere, da un lato mi lusingava, dall’altro mi preoccupava.

Arrivammo tardi a Bolzano, verso le otto della sera. Non c’era tempo per andare in giro a sentire che aria tirava, dovevamo scrivere subito. Praticamente al buio. Io dovevo fare la cronaca delle bombe della giornata, Giorgio raccontare come l’Alto Adige reagiva.

Eravamo in piazza Walter, c’era poca gente in giro, cominciava a venire freddo. Bocca decise di prendere un albergo in piazza, perché la piazza era il cuore della città, perché in piazza pulsavano le emozioni e si riversavano le tensioni. Chiese una stanza con le finestre sulla piazza. Dammi una finestra, ragazzo. Dammi una finestra che devo capire quella piazza e non ho tempo. Una finestra, solo una finestra, perché avrebbe cominciato a scrivere, avrebbe scritto e finito di scrivere guardando la piazza. Avrebbe scritto, in presa diretta, quello che vedeva in piazza. Solo guardando la piazza, non aveva il tempo di fare altro.

Guardando la piazza, guardando la gente che passava, se era poca o era tanta, se era vecchia o era giovane, se si fermava a parlare o tirava via dritta, se i bar erano aperti o chiusi, se nei bar c’era gente o non ce n’era, avrebbe capito, più che altro intuito, che aria tirava. Se parlavano o no di quello che era successo, se erano preoccupati o no per la nuova stagione della bombe. Sensazioni, più che altro. Brividi di pelle. Ma il racconto della piazza avrebbe dato il senso degli umori della città quella sera.

Ne venne fuori il racconto, acuto e intenso, scritto benissimo, di una piazza tra l’indifferente e l’impaurito. Quella piccola lezione di vita e di mestiere, di stare al centro delle cose anche quando non hai tempo, di guardarle e raccontarle, semplicemente, con onestà intellettuale, annusandone gli odori, interpretandone i gesti e gli sguardi, intuendone gli umori, l’ho imparata da lui e poi mi è molto servita negli anni.

Altri racconteranno del Bocca partigiano, giornalista e scrittore. E troppi adesso gli faranno le lodi, quando prima, quand’era fastidioso, fastidioso e scomodo come devono esserlo i grandi giornalisti, lo criticavano, lo osteggiavano, lo combattevano. Di lui, ruvido come tutti i montanari, ricorderò solo l’onestà profonda, la limpidezza dello sguardo, la parola diritta e tagliente. Ma soprattutto lo sua schiena sempre diritta. Il non piegarsi mai a nessun padrone. Una rarità al giorno d’oggi in un mondo, quello dell’informazione, troppo pieno di giornalisti presuntuosi e servili. Chissà che dalla finestra che gli hanno dato dove sta adesso, possa vedere le sue montagne

La finestra di Giorgio Bocca