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Fotografo tutto
ma non la realtà

Il magico mondo di Marco Bertin

Più artista contemporaneo che fotografo, Marco Bertin ha fatto della sua vita e del suo lavoro un’opera d’arte. Una serie di creazioni fantastiche, sospese tra il surreale, il poetico e la denuncia sociale, e di mostre prestigiose in molti paesi del mondo.

Roberto Bianchin

VERONA — Fu in un salone di velluti rossi, al piano nobile di un palazzo sul Canal Grande, una delle ultime sere di un Carnevale veneziano di parecchi anni fa, che si accorse di qualcosa che non gli piaceva nei colori dei pomposi abiti settecenteschi che stava fotografando. Così decise che li avrebbe cambiati, quei colori. Che avrebbe messo quelli che a lui parevano giusti.

Ma non avendo altri abiti con altri colori, decise di modificarli dipingendo a mano, con il pennello, le fotografie che aveva appena stampato, attraverso un recupero del suo vecchio mestiere di pittore e della tecnica antica di quando le foto erano solo in bianco e nero. Il risultato fu straniante e sorprendente. I Carnevali foto-dipinti di Marco Bertin, da Venezia a Rio, sono diventati libri e mostre che hanno fatto il giro del mondo.

È un fotografo solo perché usa lo strumento della macchina fotografica, Bertin, 57 anni, nato a Verona dove vive e lavora. In realtà è un artista contemporaneo. Le sue foto, solitamente di grandi dimensioni, montate su pannelli giganti appoggiati a pareti mobili di broccato, sono autentiche opere d’arte che vengono esposte e vendute in importanti gallerie italiane e straniere. «In effetti la definizione di fotografo mi va un po’ stretta — sorride — diciamo che sono un artista che utilizza lo strumento fotografico alternandolo alla manualità artigianale».

Bertin costruisce con le sue mani, usando materiali poveri, chiodi e martello, forbici e colla, tutti gli oggetti di cui ha bisogno per le sue creazioni. E si tratta delle cose più disparate, da un teschio a un’antica torre a un rubinetto, perché questo strano tipo di fotografo fotografa tutto ma, a differenza della maggior parte dei fotografi, non fotografa la realtà.
«Non mi interessa», spiega serafico nel suo studio di via D’Azeglio, in centro a Verona, un antro ingombro di tele, colori, barattoli, scarpe da tennis, spilloni, mutandine da donna e giochi da bambino. «A me interessa tutto ciò che è manipolato. O dalla natura o dalle mie mani. Quindi il contesto delle mie opere non è mai spontaneo. E le mie immagini non sono documentazione di un’azione, ma interpretazioni estetiche di un concetto».

Si capisce meglio sbirciando tra i suoi lavori e nella sua vita. Bertin, figlio d’arte (papà Paolo dipingeva) comincia infatti come pittore. Surrealista. Fa studi artistici, di giornalismo e di antropologia culturale, poi si dedica all’arte concettuale realizzando opere di grandi dimensioni e performance di body art. Quindi si specializza nella fotografia artistica utilizzando i linguaggi dell’arte contemporanea. Ha tenuto lezioni in varie università, pubblicato sei volumi e allestito mostre personali in città di vari paesi, dall’Italia alla Francia, dall’Austria alla Germania, dall’Olanda al Portogallo.

I suoi lavori sono sostanzialmente tematici, e si muovono per filoni di idee. Tra i principali, oltre al Carnevale, un viaggio in cui lo accompagnano i testi del regista e poeta Antonio Giarola, la Cina. Più precisamente, l’ossessione del Made in China. Si intitola così l’ultima mostra, allestita al Lucca Photo Festival («un grido di indignazione», la definisce), in cui sullo sfondo rosso della bandiera cinese si stagliano i più svariati articoli prodotti in Cina ma destinati ai mercati occidentali, tra cui souvenir e oggetti di culto, statue della libertà e torri Eiffel, matrioske e big ben, santi e gondole di plastica. «La Cina, in nome del profitto, sta producendo i simboli e le immagini della cultura occidentale che è completamente agli antipodi della sua dottrina», spiega.

Altre facce del suo lavoro sono il progetto denominato Iconologia, una sorta di rappresentazione allegorica in tempi moderni del celebre lavoro di Cesare Ripa, un erudito del Seicento che ha fatto a lungo da guida a artisti e intellettuali, e quello battezzato I am you, l’ultima creazione, in cui un personaggio si confronta con il suo alter ego femminile in un crescendo di situazioni al limite della trasgressione e del paradosso. E dove nulla è mai come sembra.

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Gio, 03/01/2012 - 12:00

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