Conte, Duca
e pur Patrono
Una vicenda immaginifica
Lo scrittore Gian Antonio Cibotto, scomparso il 12 agosto, si fregiava di tre titoli: Conte di Lendinara, Duca di Vallier, Patrono della Vangadizza. E’ avvolta nel mistero la genesi di questi riconoscimenti, così come la loro autenticità, sulla quale peraltro c’è chi è disposto a giurare. Ma altri propendono invece per un gioco, sottilmente ironico, imbastito dallo stesso scrittore che amava gli scherzi e le iperboli. Noi abbiamo provato ad indagare sul campo, partendo dal Caffè Grande di Lendinara, insieme allo scrittore Giancarlo Marinelli. E abbiamo fatto alcune scoperte. Eccole.
A la sagra de Lendinara
cità de nobili finì a remengo,
me piaseva ‘ndarghe da bocia,
quando montavo su la giostra
a cavai che menava la testa.
Opure venivo ‘compagnà
al famoso circo Zamperla,
de nome, me par, Casimiro,
a vedare i paiassi co’l muso
bianco, nero, rosso sfogonà.
La roba più bela de tute,
però, trovavo la fosse, verso
mezanote, in piazza “granda”, la tombola,
che regalava a la zente
na grande ilusion de felicità.
La stessa che provo mi
certe sere de malinconia,
nel sarar i oci sui libri
che me sta intorno a cataste,
pensando a la sagra
de la Madona nera de Lendinara
come se fosse alora…
(Gian Antonio Cibotto, Amen, Marsilio 1998)
LENDINARA (Rovigo) – Un po’ per vezzo, un po’ per scherzo e per cazzeggio, e molto per quell’ironia e auto-ironia così tipica della sua terra, che era uno dei tratti distintivi, se non il prevalente, certo tra i più evidente del suo carattere , Gian Antonio “Toni” Cibotto si era autonominato nell’ordine, senza dare troppe spiegazioni in proposito, anzi non dandone proprio nessuna, Conte di Lendinara, Duca di Vallier e Patrono della Vangadizza. Questo senza dimenticare quell’affettuoso “Toni Mona” con cui a volte molto seriosamente si presentava, spiegando, a chi lo interrogava, che passava il suo tempo “per lo più commemorandosi” , per poi congedarsi nello stesso, identico, modo, che lasciava allibiti quanti non lo conoscevano: “Consideratemi estinto”.
Il giorno del suo funerale, il 14 agosto 2017, quando ci siamo resi conto che si era estinto per davvero e non era un’altra delle sue trovate, un pomeriggio infuocato senza neanche un filo di vento –Vento, ecco, questo era un modo in cui lo chiamavano gli altri, per il fatto che non si sapeva mai dov’era, quando sarebbe arrivato e se sarebbe arrivato — ci siamo seduti all’ombra a bere prosecco alla sua memoria, con lo scrittore e regista Giancarlo Marinelli, ai tavolini del Caffè Grande in piazza a Lendinara, dove ha voluto tornare adesso che ha finito l’inchiostro, e dove la sua famiglia lo aspettava.
Gli piaceva questo posto. “Lendinara, per chi non lo sapesse, è un dolce paese di antica eleganza, che al dire degli esperti attraversa una crisi sempre più grave. Fortunatamente in piazza esiste ancora un caffè degno di questo nome, dove fra maggio e settembre si può conversare in leggerezza di spirito di tutto e di niente davanti al massiccio Palazzo Pretorio che fa riandare con la mente alla dominazione estense. E’ qui che ogni tanto il sottoscritto approda -scriveva Cibotto nelle pagine de “Il Principe stanco”, edito da Neri Pozza nel 2002- sospinto dalla nostalgia dei tempi in cui pendeva dalle labbra di Giuseppe Marchiori e dei suoi amici, che andavano da Birolli a Levi a Saba”.
A Lendinara, undicimila anime, dove c’è un teatro (ancora attivo) che si chiama Ballarin, costruito nel 1813 da un appassionato, Girolamo Ballarin, che aveva ristrutturato un vecchio granaio, si respira ancora un’aria antica. Contadina. Come lontana. Dimenticata. Poche tracce degli antichi splendori. Quando la chiamavano “L’Atene del Polesine” per i tesori artistici racchiusi, e fiorivano le accademie letterarie, come nel ‘700, quando si contarono in zona fino a una cinquantina di poeti che rimavano in italiano, castigliano e latino. “Erano gli ultimi guizzi dell’Arcadia”, annotava Cibotto scrollando la cenere con un picchiettio leggero dell’indice sulla punta del toscanello.
Conte di Lendinara, sì dunque, certamente, con ragione e a pieno titolo. Ma anche Duca. Duca a 37 chilometri di distanza. Duca di Vallier. O meglio, lui diceva così, Vallièr, alla francese, perché era più elegante, e perché gli ricordava quel Cavaliere di Seingalt, pronuncia Sengàl, di un personaggio per cui nutriva soggezione profonda come Giacomo Girolamo Casanova. Vallièr, in realtà, è Valliera, frazione di Adria, 719 abitanti che diceva di conoscere uno per uno: “So vita, morte e miracoli di tutti”.
Difatti si ricordano ancora di lui le sorelle Silvana e Lucilla Rossi, che insieme al fratello Paolo hanno gestito per decenni la centenaria trattoria “Da Camillo” a Valliera sull’argine sinistro del Canalbianco, dove approdavano per le tagliatelle al ragù di anatra tipini come Ferruccio Tagliavini, Giulietta Simionato, Toni Bisaglia. Anche loro, come Cibotto, amavano le sagre. Specie quella, antichissima, leggendaria, dedicata al patrono, San Rocco, quando il prete doveva fare messe a ripetizione per accontentare tutti i fedeli, e la chiesa restava aperta fino a notte fonda per permettere la benedizione del “saso”, un cordoncino di cotone che simboleggiava un filo del mantello del Santo, e che i fedeli portavano in chiesa perché fosse benedetto, come segno di richiesta quotidiana di protezione.
Conte e Duca, ConteDuca o DucaConte, dunque bastavano per la necessaria ascesa ai ranghi nobiliari. Mancava ancora un gradino. Quello più alto. Quello più prestigioso. Quello impossibile da eguagliare in terra. Quello diretto verso la santità. Fu così che dopo essersi nominato Conte e Duca, Toni Cibotto si nominò persino, e addirittura, Patrono. Santo direttamente, insomma. Si nominò Patrono della Vangadizza, titolo di cui andava più fiero di tutti, patrono di un’abbazia che quasi non esiste più, perché ne è rimasto in piedi solo un rudere, un campanile e una cappella, ma cosa importa. Conta che fosse quello che è stata. Un formidabile centro di pensiero e di cultura, fin da quando fu costruita, nel decimo secolo, a Badia Polesine, diecimila abitanti, dieci chilometri da Lendinara.
Indipendente fin dall’anno mille, resistette a Federico Barbarossa come a Papa Celestino, che furono costretti a riconoscerne l’indipendenza. Poi fu l’ordine dei Camaldolesi ad accogliere i contadini per bonificare quelle terre e offrire protezione agli abitanti, sviluppando le attività culturali con la creazione di una fornitissima biblioteca e di una scuola per lo studio di filosofia, teologia, canto sacro, arti e scienze.
Gli eruditi e lungimiranti abati benedettini della Vangadizza non potevano scegliersi patrono migliore di Cibotto. Per parte nostra, noi ci ostiniamo a continuare a non considerarlo estinto. Nel frattempo, ti sia lieve la terra vecchio Toni.