Trieste a caccia
del fantasma
di D’Annunzio
Un gruppo di esperti al lavoro nel centro della città
Numerosi cittadini raccontano di aver incontrato il Vate di notte aggirarsi brontolando in piazza Unità d’Italia. Le segnalazioni, piuttosto dettagliate, hanno convinto la squadra speciale di acchiappa fantasmi dei National Ghost Uncover, guidata dal professor Massimo Merendi, ad iniziare le indagini con una serie di sofisticatissimi strumenti in grado di registrare la presenza di fantasmi. D’Annunzio era legato a Trieste da molti episodi di guerra e da numerose amanti.
TRIESTE – Il professore, così lo chiamano i suoi allievi con una certa deferenza, si aggira circospetto per piazza Unità d’Italia, scrutando attento i segni lasciati sulle pietre del selciato. Con passo lento, preciso, perlustra le viuzze della città vecchia, e si spinge a spiare negli androni degli antichi palazzi. Il professore è elegante, ha occhialini da intellettuale, un borsalino bianco e un eloquio romagnolo esuberante.
I suoi allievi, un manipolo in tute bianche, armeggiano con apparecchiature misteriose. Scatole metalliche piene di antenne, manopole, cavi e sensori. Qualcosa a metà fra apparecchi stereo e contatori geiger. Ogni tanto si accendono e si spengono spie luminose di vari colori, e si sentono indecifrabili rumori, tipo fischi e fruscii. Si tratta di rilevatori di campi magnetici, telecamere a infrarossi, e speciali potentissimi microfoni in grado di registrare anche le voci dell’aldilà.
Il professore, italiano di Forlì, si chiama Massimo Merendi, e comanda l’unità speciale dei National Ghost Uncover. In una parola, gli acchiappa fantasmi italiani. Ghostbusters. Sono a Trieste in missione speciale per catturare – pardon, intercettare – il fantasma di Gabriele D’Annunzio.
Il Vate, infatti, è tornato. Almeno così dicono – giurano – una decina di triestini che raccontano di averlo visto di notte a passeggio per piazza Unità: elegante, fiero, impettito, il cranio perfettamente rasato che brillava come una lampadina sotto i raggi di una luna smisurata.
Ciarliero, anche. Del resto la parlantina non gli difettava. A uno avrebbe chiesto la strada per Fiume. Secondo un altro avrebbe tenuto un comizio davanti al municipio. A un altro ancora avrebbe confidato di non avere alcuna fiducia nel governo. Con un altro triestino si sarebbe lasciato andare a una corposa filippica contro gli abitanti della città giuliana: tanta fatica per renderla italiana – questo il succo del suo discorso – e ora spuntano strane voglie di indipendenza. A un altro avrebbe rivelato che sarebbe ritornato a settembre per mettere finalmente le cose a posto.
“Abbiamo vagliato le testimonianze ricevute – spiega, serissimo, il professore nel corso della sua ricognizione – e abbiamo deciso che valeva la pena effettuare un primo sopralluogo”. “Noi ci adoperiamo – spiega – per verificare le segnalazioni ricevute, ma certifichiamo unicamente quello che riusciamo a vedere, a sentire o a registrare”.
I triestini, che sono convinti di aver persino sentito D’Annunzio declamare in piazza i versi dell’Alcyone (ma per altri si trattava de La pioggia nel pineto, e per alcuni de Il piacere), gli dicono che deve tornare di notte, perché è solo di notte che il fantasma del Vate esce di casa o da chissà dove. Di notte, perché “vengo spesso a Trieste in segreto, quando la città si accende. Sono un amante notturno. La respiro, libero e solo, e non mi sazio”. Così scriveva alla poetessa Nella Doria Cambon, una delle sue tante amiche-amanti triestine, con la quale, come con Olga Levi Brunner, ebbe un animato sodalizio.
D’Annunzio, dunque, è tornato a Trieste. Non Byron. Non Joyce. Non Rilke. Non Saba, non Svevo. Ma neanche Luttazzi o Cecchelin. Nemmeno Ave Ninchi. No, D’Annunzio, che era nato a Pescara, e che però con Trieste aveva intessuto solidi, intensi e profondi legami nel tempo, a cominciare da quando, tra il 1881 e il 1890, strinse fitte relazioni con numerosi irredentisti (Guglielmo Oberdan fra tutti), e per finire quando, sul sagrato del Duomo di San Giusto, venne insignito dal Duca d’Aosta della medaglia d’oro al valor militare. Era il 10 aprile del 1918.
Nel mezzo, l’avventura di una vita. Scritti, discorsi, articoli, odi, comizi, viaggi d’amore, di beffa e di guerra. Tra i tanti episodi che lo legano alla città giuliana, l’ode dedicata a Vittore Hugo che nel 1902 inviò a Il Piccolo, subito sequestrato dalle autorità asburgiche dopo averla pubblicata: “Italia! Italia! / Una voce d’iroso dolore / dall’adriatico mare… ripete oggi il grido… calpesta dal barbaro atroce / o Madre che dormi, ti chiama / una figlia che gronda di sangue”.
In quello stesso anno, all’inizio del secolo, arrivò a Trieste, festeggiatissimo, assieme a Eleonora Duse, prese alloggio all’Hotel de la Ville, e andò in vacanza in Istria, a bordo del piroscafo Arsa. Quando sbarcò sul molo di Parenzo, raccontano le antiche cronache, fu applaudito fragorosamente da una folla festante.
Nel 1915 e nel ’16 volò per due volte su Trieste, lanciando volantini che annunciavano la prossima liberazione dall’Austria-Ungheria. Nel primo aveva scritto: “Coraggio fratelli! Coraggio e costanza! Per liberarvi più presto combattiamo senza respiro”. E nel secondo: “Trieste, ti portiamo nel tuo cielo il grande augurio d’Italia per l’anno di liberazione che sarà l’anno primo della tua vita nuova”.
Muli e Babe lo aspettano ancora una volta, lui o il suo fantasma, per un’altra battaglia.