La storia misteriosa
dell’oro di Boccafossa
Un giallo dell’ultima guerra
In un posto sperduto nelle campagne del Nord Est si possono incontrare ancora oggi bizzarri personaggi che setacciano il terreno armati di metal detector e gruppi di sommozzatori che dragano il fondo del fiume Livenza. Cercano il tesoro della leggenda: le casse con l’oro del Montenegro sepolte nell’agosto del 1943 che, partite da Roma, dovevano finanziare la rivoluzione del paese balcanico. Una storia raccontata anche da Hugo Pratt in un’avventura del suo Corto Maltese, intitolata appunto «Sotto la bandiera dell’oro». Scopriamo com’è andata.
I due militari abbandonarono la strada principale a San Stino e si nascosero sotto il ponte della Livenza. Scesero dalla moto senza spegnere il motore e l’uno aiutò l’altro a togliersi la divisa e a indossare abiti civili. Ripose la divisa del compagno nella sacca a fianco del sedile, lo abbracciò, girò la moto e se ne tornò da dov’era venuto. Lunedì mezzogiorno d’agosto, aria tersa e sole che picchiava, l’uomo attraversò il ponte, diede un’occhiata alla mappa che poi nascose subito in una tasca interna della giacca che teneva in spalla e poi s’incamminò, in direzione mattina, sulla strada di sassi sopra l’argine destro del fiume.
«Boccafossa?» chiese a un tizio bianco di capelli che gli veniva incontro su un carretto carico di sacchi di grano, trainato a stento da un vecchio asino.
«Vanti par de qua — rispose l’uomo che andava al mulino indicando la direzione col dito — ma a pie ve vorà un’ora bondante. Seo foresto? Veo parenti lavìa? Chi seo de casa vu, qua se conossen tuti, vigneo da l’estaro?»
L’uomo sorrise ma non rispose.
«Nol capisse, el sarà un sempiet» disse sottovoce il carrettiere alla ragazzetta che lo accompagnava, quasi nascosta tra i sacchi di grano.
«Des ghe fae veda mi na roba, tarà se nol capisse…» disse ghignando ed estrasse da una sporta un bottiglione di vino.
«Voeu un’ombra?»
L’uomo fece segno di sì col capo, il carrettiere gli versò da bere dentro un pentolino di terracotta scheggiato. L’uomo bevve, ringraziò a gesti, salutò e s’incamminò. Il carrettiere borbottò qualcosa alla ragazza e diede uno strattone alle redini costringendo l’asino svogliato a proseguire.
Dopo un po’ l’uomo arrivò al crocevia d’una borgata che sulla sua mappa era segnata col nome “Torre di Mosto”; due cani gli abbaiarono contro, una donna si sporse dalla finestra di un’osteria per vedere.
«Boccafossa» ripetè l’uomo.
«Par de là, drio l’arzene, sempre vanti — indicò la donna puntando il dito — ma vè ancora un bel toc de strada. Voeo un vovo duro, se voè ve o dae vuintiera, ghi n’ho cusinà massa stamatina, me tocarà butarli via sinò. Ghin voeo do?» L’uomo fece di sì con la testa.
«Vignè dentro, porta mal passar a roba da a finestra.»
L’uomo rispose di sì con la testa ma non si mosse, forse non aveva capito. La donna uscì sulla soglia accompagnata da due gatte, una pareva incinta, e gli mise le uova tra le mani.
«Ciapè qua, inebetìo!»
L’uomo sorrise, ringraziò a gesti e s’incamminò lungo l’argine. Dopo mezz’ora incontrò due ragazzetti dal viso annerito, sporchi, scalzi, rapati quasi a zero, con delle reti in mano, a cavallo d’una sgangherata bicicletta da donna senza gomme.
«Boccafossa» ripetè.
«Lavìa, dove che i do canài se incrosa, pena prima de a boscheta, dove che l’è l’ostaria — indicò uno col dito — vignè co noantri, sten la vizin… vardè che bestie che ven ciapà» risposero tirando fuori da un sacco di iuta un grosso luccio agonizzante e un paio d’anguille viscide sporche di sabbia verde.
L’uomo sorrise, osservò bene i pesci, salutò con la mano e seguì per un po’ i ragazzi che s’allontanavano, traballanti sulla bicicletta senza gomme. Arrivò alla confluenza dei due canali e si fermò sulla riva, di fronte all’osteria. Con un fischio attirò l’attenzione di un tizio seduto su una barca dall’altra parte della riva e senza aprir bocca, a gesti, quasi fosse un attore, gli fece capire che voleva essere traghettato oltre il canale.
Il tizio, mugolando qualcosa d’incomprensibile, s’avvicinò, lo fece salire in barca e lo scaricò dall’altra parte. L’uomo estrasse dalla tasca una grossa moneta e la porse al barcaiolo che strabuzzò gli occhi e, dopo qualche esitazione, se la mise nella tasca posteriore delle vecchie braghe di fustagno, esprimendo la sua riconoscenza con inchino, stretta di mano e pacca sulla spalla del generoso cliente. L’uomo sorrise, salutò, s’incamminò tra le sterpaglie della palude in parte ancora da prosciugare e sparì tra gli arbusti in direzione della boschetta.
Nel tardo pomeriggio il rombo d’un piccolo velivolo attirò l’attenzione dei pochi fittavoli della zona. L’aeroplano fece due giri sopra la boschetta, s’abbassò un poco e lanciò a breve distanza due piccoli paracadute con delle casse appese, che caddero vicino agli alberi. Poi ritornò verso Grisolera ma non era ancora scomparso all’orizzonte che nella stessa direzione si udì l’eco di numerose schioppettate non certo di saluto.
Intanto l’uomo aveva raccolto le casse, se le era portate dentro la boschetta e le aveva sepolte nella buca che aveva scavato poco prima tagliando a fette la terra molle col grosso coltello che teneva nascosto dentro la giacca. Poi tirò fuori una scatola di fiammiferi militari e bruciò la mappa che lo aveva condotto fin là.
Aspettò che facesse buio e ritornò sui suoi passi, attraversò di nuovo il canale più a monte, dove aveva precedentemente intravisto una specie di ponte di pali piantati nel fango e, masticando alcune gallette con cui s’era riempito le tasche della giacca, seguì l’argine della Livenza incamminandosi nella penombra della sera in direzione del ponte di San Stino da dove era sceso. Ma non ci arrivò mai.
Il compagno in moto lo aspettò sotto il ponte per tutta la notte e per la mattina seguente, ma inutilmente. Poi se ne tornò indietro da solo perché questi erano gli ordini che aveva ricevuto.
Qualche anno dopo la fine della guerra qualcuno lo venne a cercare, quell’uomo scomparso, e con lui quelle casse contenenti qualcosa di misterioso provenienti in segreto via aereo da Venezia, che il comando gli aveva ordinato di sotterrare nella boschetta di quel posto fuori mano della palude oltre la Piave, indicato col nome Boccafossa.
Ma il baffuto e scontroso castaldo al servizio dei nuovi proprietari, con tanto di schioppa in spalla, aveva informato i curiosi forestieri pallidi che parlavano a fatica un italiano stentato che, per via dei lavori di bonifica, quella boschetta lì non c’era più da un pezzo e che il terreno della zona era stato grossolanamente spianato, arato e seminato di fresco e non lo si poteva calpestare perché oltretutto la terra era inzuppata d’acqua perché la notte precedente era piovuto e parte dei nuovi canaletti di scolo, non ancora messi bene a livello «i iera ’ndai parsorae i vea alagà tut.»
Questa storia avviene nell’agosto del 1943, un paio settimane prima dell’8 settembre. Di queste casse con il famoso “oro del Montenegro”, partito da Roma e che doveva servire per finanziare la rivoluzione nel paese balcanico, ne parlano in tanti, ma nessuno possiede documenti che testimonino l’eventuale esistenza e la fine che hanno fatto. Se sono state intercettate dai partigiani in un agguato lungo la Livenza, o se sono state portate giù verso Caorle e poi abbiano preso la strada, o il mare, verso i balcani. Ne parla addirittura Hugo Pratt in un’avventura del suo Corto Maltese, Sotto la bandiera dell’oro, ambientata però nella Prima guerra mondiale in località Sette Casoni (oggi Valcasoni), a un tiro di schioppo da Boccafossa.
Nei campi attorno a Boccafossa c’è ancora qualcuno che gira col metal detector, mentre tutt’ora ogni tanto qualche gruppo di sommozzatori esamina il fondo della Livenza fino a Sant’Elena. Trovano di tutto, persino bombe e autoblindo. Ma delle casse con l’oro nessuna traccia.