Autoritratto con conigli

La ragazza di famiglia contadina partiva dalle basse, in bicicletta, arrivava a San Donà e prendeva il treno per Venezia, per andare a servire nel palazzo dei ricchi nobili. Che la aspettavano contenti, a braccia aperte ma talora (il vecchio) anche a braghe aperte. L’austera ricca nobiltà veneziana degli anni tra le due guerre (pur sempre nobile, ricca sempre meno) accoglieva la gioventù campagnola come da sempre aveva accolto zanni, arlecchini e colombine dell’entroterra. Figli affamati dei campagnoli diseredati, senza terra, costretti generazione dopo generazione a inchinarsi e a sottostare ai padroni, vicini o lontani che fossero.

Eugene de Blaas  (1843–1931), Ciacole  (1904; fonte commons.wikimedia.org).

Guadagnandosi da vivere servendoli nei loro vetusti palazzi di città, ora che le dimore campagnole non offrivano più il gusto settecentesco della villeggiatura. I giovani patrizi erano fuggiti da Venezia per andarsi a rifare una vita nelle città più moderne dell’Italia e dell’Europa, mentre i loro vecchi, acciaccati dall’età, impauriti dall’aggressività del progresso, ingabbiati dalla loro decadente fiacchezza, si rassegnavano fatalmente alla stasi e alle scomodità di un’isola delle meraviglie, Venezia, che con la povertà post napoleonica (stabilizzata dall’avvento della Repubblica savoiarda) era rimasta mortalmente prigioniera del suo passato e fieramente imbarazzata dall’avvento dell’era tecnico-produttiva.

Marghera nasceva allora, fiera rivolta industriale, sussulto produttivo dei rari patrizi che avevano capito che ben più del titolo nobiliare contavano i soldi e la creazione di posti di lavoro per gli erigendi opifici industriali. La Venezia delle merlettaie e delle impiraresse avrebbe funzionato forse come cartolina per gli ospiti illustri, un divertissement per una certa élite, ma non certo per dar da vivere alla zente menuda.

La fiera servitù campagnola, suo malgrado, assisteva ignara del tutto al transito fra le epoche. Mentre cucinava, lavava i panni e faceva da badante agli anziani, procrastinando il loro tasso di immortalità.

Le ragazze accumulavano i risparmi per la dote così, lavorando senza sosta per giornate interminabili e per lunghi periodi in palazzi splendidi, dai saloni giganti e dai piani nobili luminosi e sfarzosi, pregni di storia e di memoria. Da una sala all’altra, da una camera all’altra, c’era (e ci rimane) il salottino, il boudoir, il disimpegno col canapè e il tavolino per prendere il caffé. La dama, dalla sua camera, poteva intrattenere contemporaneamente due ospiti senza che questi si vedessero. E la servetta controllava che non abbandonassero il posto assegnato loro finché la dama non li avesse messi in libertà, controllando poi che avessero lasciato il palazzo senza indugio e senza nascondersi per origliare. Uno a piedi dal portone della strada e l’altro in barca dalla porta da mar.

Non finì quell’epoca, continua tutt’ora. Ma la ragazza campagnola un dì ricevette il ben servito dai padroni: s’era fatta donna, doveva andare a sposarsi e a metter sù famiglia. Così, oltre al dovuto stipendio, visto che la buona uscita o l’attuale tieffeerre non c’era, la generosa padrona di casa decise di regalare alla ormai ex servetta un ninnolo, una fussara, un ricordo, un souvenir insomma, affinché quando fosse ritornata in campagna si ricordasse, vedendolo, della padrona che l’aveva tanto amata (se non del padrone che l’aveva tanto palpata e dei cugini coi quali aveva fatto tanti salti sui letti). C’era sempre pericolosamente in giro per i ripostigli del palazzo quel quadretto, l’autoritratto di quel giovane pittore di cui la nobile padrona veneziana s’era perdutamente infatuata quando lui, proveniente da Roma e venuto a Venezia a imparar l’arte a spese statali, aveva soggiornato per qualche anno in quel loro palazzo. Quel quadretto così odiato dal marito, che ogni volta che saltava fuori rimaneva arrabbiato con la consorte per due mesi, poiché immaginava torbidi affari tra la moglie e il bel pittor giovane dagli occhi penetranti.

La padrona avvolse il quadretto (poco più grande di un fazzoletto spiegato) in un vecchio residuato di damasco infestato dalle tarme, legò il pacchetto con una cordicina e lo mise tra le mani della ragazza, liberandosi così per sempre di quel pegno d’amore che da anni le infestava i ricordi. La giovane ex cameriera di campagna appena licenziata avrebbe gradito maggiormente come dono del denaro, o al limite qualcosa di commestibile da mettere sotto i denti nel lungo viaggio di ritorno. Ma secondo corretta buona educazione ringraziò lo stesso la donatrice prodigandosi in reverenti improvvisati grotteschi inchini. Finché fu definitivamente sospinta fuori dalla porta del palazzo, ove potè iniziare a rigurgitare e sfiatare, tra sé e poi a voce alta, anni di bocconi amari e umiliazioni con linguaggio ben più grasso e colorito di quello imparato a dottrina dalle suore.

Tornata all’umida e fatiscente casa campagnola, dove a pian terreno invece del fondaco di palazzo ci stava il tinello che ospitava i bachi da seta (e che, se da una parte comunicava con la scala di legno tarlato che portava nelle camere del primo piano, dall’altra, tramite una vecchia porta di legno dalle sfése così larghe che poteva passarci «un can de corsa co na fassìna in boca» comunicava direttamente con l’allegro mugghiante fetore della stalla) posò il fagotto col quadro sopra una sedia appoggiata al muro di calce bianca. E nei giorni seguenti, presa da quello sconforto misto a rassegnazione provocato dalla repentina e definitiva caduta dal dorato lusso della Dominante alla scrostata miseria della campagna più profonda, di quel fagotto se ne dimenticò.

A questo punto, cara lettrice, (chissà perché mentre scrivo immagino che tu sia femmina) consentimi di abbandonare il gentile e grazioso stile narrativo veneziano per abbracciarne uno più grottesco, ruvido e grezzo, che meglio si addice all’evoluzione campagnola della vicenda. Anche perché questa storia si sviluppa in un luogo sovente definito paese dei mincioni, ove il termine mincioni sta a indicare personaggi dal fare oltremodo istintivo e diretto, ridanciano e scherzoso, gente che ad ascoltarla non si capisce mai se stiano parlando sul serio o ti stiano prendendo in giro; tipico di chi mentre parla studia le persone che ha di fronte, o forse è solo più avvezzo a comunicare con le bestie che con gli umani. Ma prima, caro lettore, è bene che descriva il quadro in oggetto.

Grande poco più di un fazzoletto spiegato, scrivevo sopra; una tela molto leggera, quasi trasparente, di iuta finissima e con leggerissima imprimitura pittorica. Il ritratto che vi si osservava, databile per stile nella seconda metà degli anni Venti del Novecento, era dipinto a olio, in stile accademico ma con fierezza di colore liberty, con pennellate lunghe e decise che denotavano una mano non ancora matura ma già esperta e assente di tentennamenti. Il volto dipinto, un uomo sui trent’anni o poco meno, appariva gioviale e istrionico, vigoroso e aitante. Sulla base dei colori usati (incarnato arancio, riflessi e ombreggiature a tonalità fucsia, viola e terracotta) lo si sarebbe detto un fiero seduttore aggressivo, non certo un melanconico romantico malaticcio. Sulla base del collo della figura appariva una camicia chiusa al collo e portava una cravatta sottile. Mentre i capelli erano impomatati e lisciati all’indietro tutt’attorno al capo. Occhi scuri e penetranti, con la pupilla che mandava un riflesso profondo dipinto con un tocco di maestria.

La tela di iuta era sorretta ai quattro lati a un esile telaietto rettangolare di legno scuro, senza traverso. Era racchiusa da una cornice doppia: quella esterna larga circa sei-sette centimetri, che in origine doveva essere dorata. Mentre la cornice interna, una sorta di paspartù liscio, forse originariamente — data l’epoca e per abbinarsi al quadro — poteva essere stata color terracotta, o grigio scuro.

Poteva essere, poiché le mani di un avventato quanto incosciente restauratore avevano pasticciato di porporina oro la cornice esterna, e di porporina argento quella interna. E il maldestro lavoro, eseguito a distanza di quasi novant’anni (se il quadro era degli anni Venti il restauro era avvenuto attorno al 2010) era stato compiuto senza preoccuparsi di staccare preventivamente la tela, così che anche la tela stessa era stata impiastricciata ai bordi dalle sbavature delle due porporine.

La porporina, lo smalto dei poveri, pittura al nitrodiluente dal puzzo feroce, era molto usata nelle campagne della zona. Inserita tra le mode del tempo dal proprietario della ferramenta locale, che ne decantava le doti di resistenza e brillantezza, serviva a dare nuova vita agli infissi tarlati, a resuscitare i metalli arrugginiti e soprattutto ai manubri delle biciclette che, a causa della pioggia e dell’umidità, perdevano subito la lucentezza poiché la cromatura economica si sgretolava e con la bicicletta che appariva così, vecchia e malmessa, era difficile raccattare fidanzate davanti alla chiesa dopo la messa.

Riannodando i fili del discorso, era successo che quella volta il quadro era stato traslocato dalla sedia del tinello all’anticamera della stalla. E lì era rimasto anche quando la ragazza si era sposata ed era andata ad abitare altrove col marito. Sposta di qua e di là, un giorno la fiancata della gabbia di legno dei conigli si rompe, usurata dai denti e dal piscio corrosivo delle bestie. E viene rinforzata con l’unico pezzo di legno di misura utile raccattabile attorno, cioè quel quadro col ritratto firmato ben leggibile in lacca rossa (roba da professionisti) portato a casa da Venezia.

E lì rimane, quel dipinto, finché passa la moda di tenere la stalla, che viene abbandonata qualche anno dopo che l’ultima abitante della gabbia, una coniglia da semenza assai obesa, era morta di usura procreativa, solitudine e vecchiaia. Ma devono passare ancora dei begli anni prima che un nipote della signora proprietaria del quadro erediti la stalla e, considerato che era talmente fatiscente e incragnata di escrementi da non poterla in alcun modo recuperare, decida di demolirla. Ed è proprio in qual frangente, mentre gli addetti sbaraccano l’interno della vecchia costruzione che salta fuori il quadro: in condizioni di conservazione decisamente pessime, ma giudicato ancora buono e da non buttare via. Così come sta, croste di sporco e piscio, qualcuno lo porta a far restaurare.

Lo restaurò, nel modo che ora vi dirò, un signore sulla sessantina, ex operaio metalmezzadro pensionato da qualche anno, appassionato di roba vecchia e con buone capacità in falegnameria, ferramenta e idraulica, uno di quelli insomma che non ha perso l’abitudine contadina di saper fare tutti i mestieri. Il quale, secondo il detto veneziano “stuco e pitura fa bea figura, pitura e stuco imbroja el bauco”, si appresta all’opera.

Il quadro è impregnato di escrementi solidi e liquidi, così il restaturatore lo lascia immerso per alcuni giorni in una soluzione di acqua e pòlvera (detersivo per lavatrice). Lo sporco si solleva e allenta la presa, ma per toglierlo bene tutto c’è bisogno dell’azione manuale di un pennello a setole dure, accompagnato da altro detersivo. Struscia che ti struscia, gratta che ti gratta, l’opera d’arte viene riportata al grezzo: specie la cornice, ma anche la povera tela pitturata la quale, malgrado lo strofinìo, conserva però buona parte della materia pittorica del ritratto. Che è ancora ben visibile, seppur la iuta appaia forata in basso a destra, poco sotto l’orecchio del personaggio. Il foro è largo almeno tre dita, la iuta è malamente scomposta e tende a sfilacciarsi. Così l’impavido restauratore decide di passare oltre al restauro conservativo e, tela per tela, applicare sul retro della iuta un supporto non troppo rigido che identifica in tela da pittori attuale, quella sintetica bianca da un lato che si trova nei negozi. Ne ritaglia un quadrato abbastanza grande e lo applica sul retro del foro nella iuta, incollandolo col masticiòn, cioè l’unica colla che aveva sottomano, quella bavosissima e tenacissima adoperata per applicare le pezze di gomma alle camere d’aria bucate delle biciclette.

A questo punto, cara lettrice (sicuramente amante dell’arte), non voglio nemmeno immaginare a cosa tu stia pensando, né che commenti tu stia facendo. Né che idea malsana e deleteria tu ti sia fatta degli individui protagonisti di questa storia. Che, ti assicuro, è verissima, ed è per questo che ho omesso nomi e luoghi, per far sì che persone e cose siano difficilmente rintracciabili a chi non vive da queste parti e tanto meno conosce il bestiario umano che vi arranca dalla nascita alla morte, tentando di esistere in un luogo che, in origine, il Padreterno (o chi per lui) aveva destinato a malsana palude. Ma non essere cattiva con noi (mi ci aggiungo anch’io, figlio disperato di questa gente e di questa mala aria), perdonaci e comprendici. Il mondo cambia, il progresso avanza, i vizi dei nobili quali arte e letteratura, seppur diano ancora lustro a quella che viene comunemente detta cultura, non fanno parte del nostro patrimonio genetico. Ben altra è la nostra cultura, fatta di sottomissione, creduloneria, timore reverenziale, sofferenza, opportunismo, istintività, superstizione. Ebbene sì, assomigliamo più ai servi della gleba che ai cultori di pittura e scrittura: dentro le nostre vene scorre pur sempre il sangue delle comunità povere e disperate importate nei secoli dai veneziani da oltre Adriatico, slavi zaratini cameroti albanesi stradioti montenegrini valacchi-mori turchi greci silvani e transilvani; abbiamo come unica meta vitale la sussistenza, il riempire la pancia per trovare energia per il duro lavoro di servitù ai padroni. Se ci avanza qualche forza la impieghiamo nel tentare di rigenerarci, nel procrastinare istintivamente la nostra barbara specie. In questa terra di camion, capannoni e raccolti sacrificati a ricavare terreno per farli transitare e costruirli, per poi viverci dentro la maggior parte del tempo e infine abbandonarli per trasferirci rincoglioniti all’ospedale e quindi in cimitero.

Che vuoi che sia, cara lettrice del terzo millennio, colta e sempre ben informata, avida di mostre rappresentazioni e concerti dove non ti porti a casa niente e al massimo lasci lì una pisciatina in cambio del costo del biglietto, che vuoi che sia il sacrificio di un misero quadretto dipinto da un giovane rubacuori pittore d’accademia e donato alla sua ricca amante, che vuoi che sia in confronto allo stillicidio di sacrifici patiti da noi, gente senza futuro e con poche speranze, avvezzi a spaccarci la schiena curvi sulla zappa nel gelo umido dell’inverno e nella calura zanzarifera dell’estate.

Noi, figli e nipoti dei pescatori di fosso, antichi mangiatori di pesce dallo schifoso sapore di fango, che ci pulivamo il culo con le foglie di fico e le manciate d’erba raccolte attorno ai canèri, noi che abbiamo livellato le dune dell’arcipelago paludoso, seppellendo la mitica città di Heraclia decantata dagli storici altomedievali per la sua bellezza, per ricavarne terreno da coltivare a mais, soia e glera. Noi che abbiamo patito, e che dobbiamo continuare — corpo e anima — a sopportare, le angherie e le vessazioni dei padroni vecchi e nuovi, noi categorie poco protette, magari con la partita iva tatuata sul braccio come nei lager, noi ingenui rappezzatori di cose vecchie, noi che abbiamo dato fuoco ai vecchi attrezzi agricoli stipati sui granai prima di demolire le case a tre piani per rifarle a un piano e mezzo con le stanzine interrate sempre umide, noi che al primo piano abbiamo una grande sala divanizzata e televisorata. Noi abbiamo orrore delle cose vecchie, tarlate, rosicchiate dai topi e imbombate di escrementi, tane di acari pluricentenari. Noi, nuovi servi ossessionati dal traffico e dai mutui, pensiamo solo a vivere nel pulito raccomandato quotidianamente e incessantemente dal megaschermo. Il quadretto vecchio non lo teniamo dentro casa, nemmeno in garage.

Fu così che il restauratore, a cui era stato offerto di tenersi il quadro, informato dello sfacelo che aveva combinato («È l’autoritratto di un pittore famoso — gli disse qualcuno che se ne intendeva — se vedono come lo hai rovinato è capace che ti denunciano e dovrai pagare le spese…») fu così dicevo che quel quadretto sparì. E non se ne parla più. E quando ogni tanto gli chiedo dove sia finito, sia all’ex governante che al restauratore, fanno gli gnorri e fingono di non averne mai saputo niente.

Autoritratto con conigli