Lingue madri

A spasso per Venezia ieri pomeriggio

Come che diceva Lino Toffolo («ti te ricordi de Toffolo, Mauri?» «Ovvio! Come podaria mai desmentegarme! Ciao lettori!»). Ricomincio. Come diceva Toffolo: l’italiano a Venezia è per noi la prima lingua straniera. Ma per tantissimi abitanti della terraferma adesso anche. Al posto dell’italiano parlano una roba inventata sulla base dell’inglese che fa infuriare tantissimo Milord, che lui è inglese sul serio e che parla veneziano come seconda lingua.

VENEZIA — Ieri io (Andrea Silvestri, per servirvi e anche no: che è meglio per tutti, visto che non servo a niente — come dice mia moglie che per fortuna è andata a Forni di Zoldo a fare il telelavoro, così sono da solo a casa che ci sto meglio); ieri io, il Mauri (vi ha già salutato), il Genny (Gennaro Esposito, eccolo qua che vi fa l’inchino forbitissimo che gli piace fare a a lui); e Milord (sir Vladimir McLaren, baronetto decaduto), siccome che era una bellissima giornata di sole come che ce ne sono solo in gennaio. Che sembra stia arrivando la primavera, e invece no.

Abbiamo lasciato Chang da solo a presidiare l’Osteria Ai Amici e ci siamo recati reciprocamente e insieme, percorrendo la Riva degli Schiavoni e attraversando quindi la Piazza a cui hanno finalmente tolto i tumori televisivi di quell’artista che era già patetico negli anni Ottanta e, saltando le Mercerie («perché a mi me fa tanta tanta tanta malinconia» ha detto Genny, che di tutti noi è il più sentimentale), siamo penetrati per il Bacino Orseolo a guardare gli avannotti di cefali (che sono già grandi come trote) brulicare nell’acqua immota e smeraldina e poi subito in Campo San Luca ad accerchiare come indiani i nostri spritz disparati, ma tutti in bicchiere di plastica («che a me il bicchiere di plastica mi fa ubriacare» sostiene il Mauri).

Dopo due o tre giri di spritz abbiamo deciso di inoltrarci verso Santo Stefano (sarà tre o quattro anni che non arriviamo così distante, una decina che non vediamo il Ponte dell’Accademia, ma che ci volete fare) e mentre che giravamo intorno alla banca (che adesso che sono passati cinquant’anni non è più orrenda come appena fatta: o tempora o mores) abbiamo trovato (mirabile visu!) due ragazze che si stavano scocconando dalle risate (in italiano: perdevano il cocchiume dal tanto ridere), lì: in calle Minelli («no, Milord, no xe Laiza Minelli, xe na famegia de luganegheri bergamaschi deventai nobili per schei nel Seicento» ha puntualizzato il Mauri).

Oltre a esserci solo veneziani in giro, adesso essi si fermano a parlare tra di loro per calli campi campielli corti salizzade rii terà (et cetera et cetera) e ridono anche! Cosa che non facevano più almeno dalla metà degli Anni Ottanta, quando ancora andavano di moda i munbùt e Barry White.

Gli unici che capite che non sono veneziani sono quelli che occupano tutta la calle quando camminano, persino in Via Ventidue Marzo («no Milord, no xe l’equinozio de primavera un giorno dopo, xe quando che gavemo mandà via i austriaci nell’Ottocento») anche quando sono da soli, che dovete fare le gimcane per superarli. Persino cinesi sono diventati veneziani, ma i terrafermicoli italici e i francesi non lo diventeranno mai.

Ma comunque Campo Santo Stefano è fortunato perché ci sono due bar aperti e uno fa comunque tra gli spritz più buoni della città. E ma purtroppo, proprio quando ammiravamo l’orrendo monumento alla memoria dell’illustre linguista, scrittore e patriota patrio, veneziano di là del mare essendo nato a Sebenico, che scrisse così tanti libri (tra cui due Dizionari fondamentali e anche un romanzo che nessuno legge più) che gli scimuniti che commissionarono il monumento che stavamo ammirando pensarono bene di scolpirglieli (i libri) tutti di dietro, che sembra che gli escano di sfuggita, di cui il vituperoso soprannome con cui i giovinastri incolti lo conoscono (e per niente altro).

Ecco, proprio quando stavamo commentando (il Genny: «però, dài, non è così male»): Milord entra in convulsione. Gli prendono così: dei nervosi con il tremasso, che poi spande sui masegni tutto lo spritz all’amaro di carciofo che lui ama tanto («il carciofo xe solo per i professionisti» ama ripetere). È quando che gli toccano la lingua madre, cioè l’inglese, che presentemente (con la generazione dei quarantenni di una volta tipo Matteo Renzi e i pubblicitari dell’azienda trasporti lagunari) tutti parlano solo con parole inglesi. «L’unico paese al mondo in cui el lavoro xe intelligente — dice sempre sconsolato Milord — in cui si sbrizza dentro le mutande, se guida i ragni, e xe pien di dannati fottuti bastardi!».

Ed ecco là, in quel colore tremendo dell’addizione all’arancio dello spritz per signore d’altri tempi (che lo vedete in foto: ciàpa), il colpo tremendo delle convulsioni di Milord: «Ma potevano almeno telefonare a un amico inglese, no? Oppure chiedere a un traduttore! Spendere dieci euro; magari offrirghe un spritz!». «Ma cossa ti gà?» chiede il Genny, con le sue guanciotte ciompe ciompe sempre rasate «a mi no me par che sia da far sta tragedia!». «Perché no ti sa miga l’inglese ti!» Rimbrotta subito il Mauri che non si perde un’occasione. «Appunto» dico io. «Appunto COSA?» risponde domandando il Mauri a me, già pronto alla baruffa perché in quell’appunto ci stanno dentro tante cose.

«Appunto!» dice Milord «perché prossima apertura in inglese si dice opening soon, nelle campagne delle colonie americane si dirà forse anche next opening: che xe come dir la prossima apertura sì, ma par nialtri britannici xe più apertura nel senso de… nel senso de…»

«Nel senso del buso più vissin» ho detto io. E così tutti si sono messi a ridere e il Genny è andato a ordinare un altro giro assortito di spritz da asporto.

Salute!

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