E dopo di allora
io sarò nei miei libri
Toni Cibotto e l’idea della morte
Avevo letto Cibotto e volevo andare a Scano Boa. Dice già tutto questa frase del giornalista e scrittore Gianni Mura riferita al romanzo più celebre di Gian Antonio «Toni» Cibotto, Scano Boa. Talento purissimo, sognatore anarchico, sempre controcorrente, Cibotto, scomparso a 92 anni il 12 agosto, è uno dei maggiori scrittori del Novecento. Lo ricordiamo con un suo scritto tratto dal libro «Il principe stanco» edito da Neri Pozza, in cui dialoga sulla morte con un altro grande scrittore, e suo amico, come Giovanni Comisso.
Ormai so’ deventà ‘na fogia
sbatua dal vento,
che da matina a sera
urta contro muri, porte, alberi,
senza trovare mai requie
(Gian Antonio Cibotto, Amen, Marsilio 1998)
Nell’archivio privato delle memorie ho ritrovato gli appunti d’una strana conversazione con Comisso, della quale serbavo un vago ricordo, sul tema alquanto insolito –per lui che amava la vita- della morte.
E’ avvenuta nella sua casa di Santa Maria del Rovere, dove si era affacciato un amico per dare notizia di un artista con il quale avevamo trascorso ore incantate. Colpito dalla parete del salotto, piagato da tracce di umidità, bisognose di un intervento di muratore e pittore, ho esordito: “Anche le case si ammalano e muoiono, non ti sembra Giovanni?”.
“Infatti”, ha replicato Comisso, “ho sempre affermato che il segreto per stare bene è di non avere casa, di abitare in un carrozzone da zingaro che gira senza mai fermarsi stabilmente in un posto. Invece la gente ha il terrore di non avere una tana di pietra e magari si carica di debiti, ignara del fatto che quando si ritiene finalmente libera deve lasciare tutto perché è scoccato il momento di andarsene, di morire”.
Mentre si passava una mano sui capelli ormai bianchi, quasi ad allontanare un pensiero inquietante, gli ho chiesto all’improvviso: “Già che l’hai ricordata, tu hai paura della morte?”.
Prima di rispondermi è stato un attimo come sovrappensiero, poi ha continuato: “Se ho da essere sincero, non è che mi preoccupi il fatto di andarmene, come accaduto a gran parte dei miei amici. Mi rende inquieto l’incubo della vecchiaia che ti fa uscire dalla festa degli incontri, dello stare con chi ti piace, dei viaggi in paesi che non si conoscono, riducendoti giorno dopo giorno al ruolo di spettatore. Peggio di un uomo assente che ha sempre bisogno dell’aiuto di altri, senza più forza di fare da solo. La morte, in fondo, a un certo punto diventa addirittura liberazione.
Perciò il giorno che sparisco lascia che altri pensino alla mia carcassa, che mi auguro venga bruciata spargendo le ceneri da un ponte sul Piave, e pensa semmai ai miei libri. Perché dopo di allora io sarò nei miei libri. E se non accadrà così e vorrai portare un fiore sulla mia tomba, ricordati che io amo i topinambur, perché sono gli unici che durante la lunga stagione del freddo si portano dentro il sole dell’estate”.
Cosa aggiungere alle sue parole? Forse che ogni volta –di questa stagione- mi sono recato a salutarlo, ho coperto la piastra della sua tomba di mazzi di topinambur. Anzi voglio sperare che la bellissima lirica pubblicata da Andrea Zanzotto, i Meteo, che dice: “Topinambur tuffi del giallo/atti festivi improvvisi del giallo/gialli brividi baci/bacilli braci”, sia stata scritta dal poeta di Pieve di Soligo pensando giusto a Comisso.
(Gian Antonio Cibotto, Il principe stanco, Neri Pozza 2002)