Cresce a Roma
l’erba matta
di Ambrosini
Al Teatro Argentina in prima assoluta l’«Erbario Spontaneo Veneziano»
Giovedì 19 gennaio 2012 (ore 21.15) prima esecuzione assoluta, per violino e pianoforte, nell’ambito della Stagione dell’Accademia Filarmonica Romana. Il compositore spiega così il significato del suo nuovo lavoro ispirato alla città natale.
Sono probabilmente poche le persone, al mondo, che non rimangano ammaliate dalla bellezza di Venezia, dalla sua atmosfera, da quella luce particolare che, resa cangiante dai canali, si irradia ovunque. Mosaici d’oro a San Marco, palazzi miracolosamente in bilico su palafitte millenarie, una serie impressionante di quadri di grandissimi sparpagliati un po’ ovunque… la città è talmente piena di meraviglie che si finisce per non far caso a cose che invece, per il nativo, possono acquisire significato, come certe calli nebbiose o certi angoli nascosti, o certe barche tipiche, rese desuete da quelle in plastica, o certi strumenti artigianali quasi in disuso o perfino certe striminzite erbette, di cui ci si accorge solo percorrendo le vie meno trafficate, quelle sulle quali il turista getta uno sguardo distratto, prima di voltar l’angolo.
Perché a Venezia c’è di tutto ma non il verde. Ci sono, è vero, dei giardini interni, anche belli, e ci sono alcuni parchi pubblici ma tutto è quasi in formato bonsai e il numero di alberi visibili è così basso da poterli contare sulle dita: ce ne sono quattro in Ghetto, due a San Giacomo dell’Orio, uno a San Polo… è una città in cui pressoché ogni centimetro è stato sfruttato per costruire.
Così mi è accaduto, passeggiando qua e là nella Venezia più nascosta, di notare dei «puntini verdi», delle minuscole chiazze, delle oasi in miniatura sviluppatesi negli interstizi di un muro, in qualche crepa di un ponte o tra i marmi di una riva. «Erbe matte», certo, eppure spesso non prive di grazia e, altrettanto spesso, impreziosite da fiori delicati, tanto belli quanto discreti. E anche da nomi altrettanto gustosi, come Fiorella di barena, Ombelico di Venere, Calcatreppola, Salicornia, Cimbalaria psicopompa ma anche Tasso barbasso, Vitriola, Tortulo, Rosa damascena, Scciocchetti, Dente de can… Tutti personaggi di una «Commedia dell’arte» vegetale che va in scena ogni giorno nei luoghi più reconditi della città, quelli dove si sono arroccati (o sono stati relegati?) gli «indigeni», quegli ormai pochissimi abitanti che si ostinano a voler vivere in questa città usurpata: dai 200.000 della mia infanzia ai poco più di 50.000 oggi e con un esodo di un migliaio all’anno, cacciati da cosche di affaristi di ogni provenienza che, sull’ «amore per Venezia», hanno costruito ben più parassitarie fortune, distruggendo il tessuto urbano delle piccole rivendite, gonfiando a dismisura il mercato immobiliare e facendo incetta di quasi tutti i negozi e i luoghi di ritrovo.
Ma finché ci sarà ancora qualche persona che abita nelle pur assai umide case sulla laguna, finché i campielli risuoneranno dei salti dei bambini che giocano a «campanon» o finché ci sarà ancora qualche erbetta pudicamente abbarbicata ad un muro salmastro, vorrà dire che Venezia è viva.
La composizione di questo Erbario ha anche posto diverse sfide. Innanzitutto la scelta di darsi un soggetto («visivo» ma anche olfattivo, tattile, locale, simbolico) e conseguentemente la scelta della forma breve: undici istantanee, più sensazioni che ritratti. E poi l’accostamento, nel programma, a Beethoven: fortuito ma anch’esso stimolante. Non tanto per la presenza, in questo Erbario, di frammenti tematici derivati dalla sua opera ma per il ricorrere (spontaneo) di alcune categorie concettuali, talvolta opposte ma complementari, come energia e dolcezza, per esempio. O moto e stasi, subitaneamente accostati; o l’impellenza a cercare forma, architettura. Se c’è qualche differenza, è forse nel modo qui di rapportarsi dei due strumenti: paritetico, certo, ma talvolta anche antitetico: l’uno appare per un istante su/tra/dietro l’altro. Affiora nel «muro di suono» creato dall’altro, ne sfrutta i pochi spiragli, si mostra, «vive» negli interstizi lasciati dall’altro. Come se l’intervallo temporale tra le due fonti sonore — i due «cori battenti» — venisse deformato, ora elasticamente allungandosi a favore di uno e proporzionalmente riducendosi per l’altro; ora accelerando e drasticamente accorciando le risposte. Contraendo i tempi, riducendoli anche ad una frazione di secondo o fondendosi, uno nell’altro.
Eppure l’epoca di Beethoven e la nostra sono forse più vicine di quanto non sembri: certo, all’invenzione «melodica» si è sostituita oggi la ricerca sul suono, si tende a costruire le frasi, più che con le «note», con «oggetti sonori» caratterizzati da una globalità di fattori interrelati, come — oltre all’altezza — un certo timbro, un’evoluzione dinamica, un impasto, un’articolazione, una tecnica, un certo uso dello strumento… come dire: un certo colore, una forma, un portamento, una certa sfumatura, un certo profumo. ●