L’anno di Dante

Teniamoci pronti: fole in arrivo

È l’anno di Dante. Prepariamoci ad una tempesta di panzane. Nel Paese degli Esperti, sta per partire il direttissimo Sette Secoli Alighieri che ci condurrà a tutta velocità verso il 13 (o forse il 14) settembre per celebrare la lontanissima data di morte di un genio letterario quasi senza pari. Ne usciremo con la nausea.

Sandro Botticelli, Dante Alighieri (tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata; fonte: it.wikipedia.org).

COSMOPOLI — Sette secoli ci dividono dalla vita difficile di Durante di Alighiero degli Alighieri, nato non sappiamo bene quando tra il 21 maggio e il 21 giugno del 1265 e autore — tra tantissime altre cose che da sole basterebbero a renderlo un faro della cultura italiana — della notissima Comedìa, detta poi Divina Commedia sia per i temi (l’aldilà) che per l’importanza (suprema).

Ebbe una vita difficile, spesa in politica e funzioni diplomatiche, in decenni in cui decine di staterelli italici di azzuffavano sanguinosamente per la supremazia reciproca e tutti erano divisi in un caleidoscopio di fazioni sostanzialmente riconducibili a: per l’Impero o per il Papa. Passò esilio e battaglie, scartoffie e missioni diplomatiche.

Ma nel frattempo ebbe modo di: fondare la letteratura italiana in lingua volgare (prima si scriveva solo in latino); scrivere trattati fondamentali di linguistica, politica, astronomia, letteratura (in volgare e in latino, ovviamente); e soprattutto la Commedia, poderoso poema di tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso) di trentatré canti terzine incatenate di endecasillabi (più un proemio che fa cento) per un totale di quattordicimiladuecentotrentatré versi.

Tutte le opere dantesche hanno tre caratteristiche comuni: grande lucidità di pensiero; precisa dichiarata finalità; riassunto delle conoscenze dell’epoca. Che, normalmente, sono le caratteristiche che rendono grande un artista. Tutti gli altri operano senza sapere bene cosa fanno, così tanto per fare, cavalcando l’onda del momento.

Nei mesi a venire (hanno già cominciato, per la verità) schiere di Esperti si arrampicheranno sugli specchi della propria vanità per convincere gli italiani del contrario. Che Dante era un visionario; che anticipò i tempi; che aveva tanta fantasia; che conosceva cose che non poteva conoscere.

Da secoli stuoli di Esperti italiani (non è che sono spuntati fuori dal nulla negli ultimi anni, c’è una lunga tradizione secolare nella Penisola e anche altrove — ma un po’ meno) modellano l’opera di Dante (un libro qualsiasi, ma di solito la Commedia perché è l’unica che conoscono per sentito dire) secondo le loro aspirazioni o necessità.

È impossibile passare in rassegna tutte le panzane che sono state scritte in sette secoli, o che verranno dette e scritte (alcune già sono state toccate) da qui a settembre 2021, ma anticiparne due o tre farà benissimo. Prima di tutto una rapidissima ricognizione a volo d’uccello.

Essendo un genio che sa quello che fa, perché lo fa e come lo fa, Dante usò tutte le conoscenze dell’epoca per creare la sua opera. Ci sono cose, quindi, che sapeva e che sentiva. E altre no. Tante cose sono state scoperte dopo la sua morte, e tantissimi pensieri sono cambiati nella testa delle persone, da quei lontani sei decenni, a cavallo tra Duecento e Trecento, in cui egli visse.

Per esempio non c’è più l’Impero; nessuno (a parte pochi simpatici mattacchioni) scrive più in latino; la Terra è ancora rotonda ma non è più al centro dell’Universo; il Papa potrebbe svenire al solo pensiero di regnare sulle nazioni come un presidente qualsiasi; il cattolicesimo non è più l’unica religione; l’aldilà non è più quello di una volta.

Non sappiamo oggi, ma un tempo al liceo si leggevano — con dura fatica — solo trenta canti della Divina Commedia: dieci per anno negli ultimi tre anni, sempre gli stessi. Nessuno ci capiva niente, soprattutto le professoresse (scusate il sessismo) che ne erano stufissime. Con uno spruzzo di Dolce Stilnovo, due pallosissime spolverate di Convivio, un goccio di Vita Nova, e un’amara puntina De Vulgari Eloquentia, l’indigesta ricetta scolastica era molto malvolentieri preparata e servita, ma felicemente e rapidamente dimenticata.

Fine della ricognizione. Per cui occorre un grande sforzo mentale per liberarsi dello sguardo sul mondo di un essere umano del terzo decennio del secondo millennio ed immedesimarsi nella testa di Dante Alighieri: uno sforzo disumano. Soprattutto per un italiano. Che noi non faremo.

Ma ecco le panzane. Due grossissime.

La prima. Dante padre della lingua italiana. Bugia. Quello che Dante voleva era un miscuglio di tutte le migliori parole parlate in Italia, una cosa assolutamente diversa dalla lingua voluta da Manzoni a Milano nell’Ottocento basata sui sonetti di Petrarca a Firenze del Trecento propagandati con grandissimo successo dalle edizioni di Manuzio stampate a Venezia nel Cinquecento.

La seconda. Dante padre della patria. Frottola. Secondo il poeta, l’unica soluzione possibile era un Imperatore rispettoso di un Papa virtuoso che mettesse fine alla divisione sotto un governo universale e rinnovatore, molto spirituale, oltre che molto temporale. Una cosa davvero lontana dall’Unità di Camillo Benso conte di Cavour, di Giuseppe Garibaldi, di Giuseppe Mazzini.

E ancora. Due panzane medie.

Canto quarto dell’Inferno. Paolo e Francesca. «Ommioddio che bello sono ancora innamorati: ecco vedi, come il poeta sente l’amore. Adesso te lo recito perché l’ho imparato a memoria, è così bello!» Tutti dimentichiamo che i due amanti sono all’Inferno, trasportati da un turbine di vento nell’oscurità fetida degli inferi, tormentati ancor di più dalla reciproca vicinanza che ricorda loro ciò che hanno perduto: perché hanno commesso adulterio. E perciò sono puniti.

Canto ventiseiesimo dell’Inferno. Ulisse. «Anche questo l’ho imparato a memoria: troppo bello. Senti senti, fatti non foste per viver come bruti… virtute e conoscenza… ah che parole!» Dante conosceva il mito di Odisseo per sentito dire: nessuno aveva ancora letto una pagina di greco ai suoi tempi. Forse per questo il suo eroe non torna a casa da Penelope ma va dritto spedito verso e oltre le Colonne d’Ercole, convincendo con menzognere parole (che funzionano anche oggi, su di noi) che è un dovere umano scoprire cosa c’è di là. Ulisse mente: l’unica conoscenza concessa all’uomo è attraverso Dio. L’Inferno attende gli incauti presuntuosi.

Queste due panzane medie, che sentirete continuamente (soprattutto per la lettura o recitazione, entrambe pessime, che ne faranno i nostri Esperti, ossessivamente) sono le più importanti perché lasciano sentire nel profondo l’immensa distanza che ci separa dal mondo di Dante e l’inarrivabile complessità del suo genio: Paolo e Francesca sono due lascivi peccatori carnali; Ulisse (che condivide la fiamma che lo arde con il compagno Diomede) è un ingannatore dei peggiori, truffatore delle anime.

E per finire. Una piccola bugia, tanto carina.

Questa l’abbiamo propalata anche noi (vedi A spasso con i dogi di Giorgio Bertolizio, I Antichi Editori, 2018). Dante morì a cinquantasei anni, di ritorno da Venezia, causa intossicazione da pesce avariato (forse un bisato) offertogli dal doge al termine dell’ambasceria in favore di Ravenna, dove il poeta viveva da due o tre anni sotto la protezione di Guido Novello da Polenta. Bazzecola, quisquilia, pinzillacchera: fu la malaria, fino agli anni Cinquanta del Novecento malattia endemica in Italia, a colpirlo fatalmente nelle Valli di Comacchio.

Buon anno dantesco!

 

L anno di Dante