Quei caduti con disonore
Un monumento per una triste storia della prima guerra mondiale
Tra poco saranno cent’anni dall’entrata dell’Italia nella Grande Guerra: saremo verosimilmente travolti non dall’onda del Piave mormorante, ma da quella delle celebrazioni, patriottiche, pacifiste o altro che siano. Ma i conti con quel tragico passato, almeno qui in Italia, non sono del tutto chiusi. Pochi, tranne i carnici, sanno che esiste in Italia un monumento dedicato a dei caduti «con disonore» in quella immane carneficina, non per mano nemica, bensì fucilati come rivoltosi dai Reali Carabinieri.
CERCIVENTO — Il luogo è Cercivento, in Carnia, a due passi dal confine con l’Austria: un masso con una targa in ottone, incisi i nomi di quattro alpini, dietro il muro perimetrale del cimitero, dove si consumò la tragedia, e con tanto di tricolore a segnalarne la sacralità patriottica. Non fosse per la riproduzione in foto di uno strano quadro, collocata a poca distanza dal cippo, raffigurante un plotone di carabinieri, riconoscibili per il tipico copricapo a lucerna, che spara su quattro soldati in divisa da alpini, lo si scambierebbe per uno dei tanti monumenti alla memoria di soldati morti in combattimento in quella guerra.
Questi i fatti: nella primavera del 1916 il battaglione alpino Arvenis, coadiuvato da altri reparti, riceve l’ordine di conquistare la cima Cellon, in Carnia, sopra Tolmezzo e attualmente in territorio austriaco. Da aprile a maggio furono attacchi frontali, secondo la strategia Cadorna, per circa ottocento morti, inutilmente, come sul fronte dell’Isonzo. A giugno vi fu una tregua per riorganizzare i reparti, che vennero trasferiti in baraccamenti nelle immediate retrovie: c’erano comprensibile nervosismo e ansia tra i soldati, tutti giovani carnici, alcuni addirittura scappati dalla zona austriaca per arruolarsi nel regio esercito italiano, ma, forse proprio per questo, visti con diffidenza dal comando d’armata, quasi fossero austriacanti venuti a far la spia.
In questo contesto psicologico, quattro alpini decidono di andare a parlare con il capitano della loro compagnia, la 109.esima: il più autorevole tra loro è Silvio Gaetano Ortis, un alpino di ventisette anni, veterano della guerra Italo Turca, dove ha guadagnato dei riconoscimenti al valor militare. gli alpini spiegano che aggirando il monte Cèlon con una marcia notturna, calzati delle loro leggere e silenziose scarpets di feltro, e scalando un canalone è possibile arrivare alle spalle delle trincee austriache, conquistando finalmente quella maledetta cima: tutti loro sono nativi del posto, e conoscono perfettamente quei monti. Il capitano ascolta e tace.
Ma il giorno dopo accade l’imprevisto: si diffonde la voce che si torna in trincea per assaltare nuovamente il Cellon, e i soldati della 109.esima, esasperati, si rifiutano di uscire dalla baracca: si barricano all’interno, incuranti delle minacce degli ufficiali, urlano che bisogna fare come ha detto Ortis. Arrivano i carabinieri, sfondano la porta, in ottanta vengono arrestati e condotti nel paesetto di Cercivento, rinchiusi in un fienile e deferiti alla corte marziale con l’accusa di rivolta in faccia al nemico: è il 30 giugno 1916.
Nella notte si insedia il tribunale militare nella chiesetta di San Martino, e alle ore due e trenta del 1° luglio 1916 emette le sentenze: 19 condanne al carcere duro, e per i caporioni della rivolta, il caporal maggiore Silvio Gaetano Ortis e gli altri tre compagni che avevano parlamentato col capitano qualche giorno prima, la pena di morte: i loro nomi sono Giovanni Battista Corradazzi, caporale, Basilio Matiz, caporale e l’alpino Angelo Primo Massaro.
Agli atti, i quattro condannati erano estranei alla protesta dei commilitoni: infatti, già fuori dalla baracca per corvée, e ignari del tumulto, solo al ritorno trovarono i carabinieri ad aspettarli: alle 4 e 58 vengono fucilati dietro il cimitero di Cercivento, a ridosso del muretto perimetrale: spareranno i Reali Carabinieri, perché i soldati sorteggiati per il plotone d’esecuzione si rifiutano di far fuoco.
Bastava poco, nell’esercito di Cadorna, per finire fucilati: un ritardo nel rientro dalla licenza, o un saluto con la sigaretta in bocca ad un generale durante un’improvvisa ispezione ai lavori di trincea erano sufficienti. Furono 750 le esecuzioni capitali eseguite nel regio esercito italiano, le più numerose in assoluto tra gli eserciti alleati: per un confronto, alla fine della guerra nell’esercito francese si contarono 160 pene capitali eseguite, nonostante la repressione per l’ammutinamento di intere divisioni nel 1917 con sparatorie tra ufficiali e soldati, che fecero morti e feriti.
Ventisette anni fa Mario Flora chiese la revisione di quel processo: Flora è pronipote dell’alpino Silvio Gaetano Ortis. Nel 2010 la corte d’appello militare ha respinto in via definitiva la sua richiesta di riabilitazione per vizio di procedura: per l’articolo 683 del codice di procedura penale militare l’istanza di riabilitazione deve essere presentata dal diretto interessato.
Nel 1996 gli abitanti di Cercivento decisero di non indugiare oltre; in memoria di quei ragazzi fucilati dietro il cimitero del paese ott’antanni prima, hanno eretto il cippo con incisi i loro nomi, perché anch’essi vittime innocenti di quella terribile guerra. ★