Piccole patrie
di gran moda

Tra illusioni e voglie di indipendenza

Seguendo l’esempio della Catalogna, cominciano a soffiare forte in tutta Europa i venti separatisti. All’interno dell’Unione Europea sono pronte a muovere una cinquantina di formazioni autonomiste e separatiste. Ventisette regioni europee decise ad uscire dai rispettivi Paesi di origine. Sette sono quelle italiane che daranno battaglia: Valle d’Aosta, Corsica, Sardegna, Lombardia, Veneto, Sudtirol, Friuli. Ma la voglia di indipendenza spesso si rivela una pericolosa illusione. L’esempio dei piccoli Stati nati dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Uno scenario destinato a cambiare il volto dell’Europa.

Piccole patrie cercansi. Mica hanno capito, poveri diavoli, che è l’unione che fa la forza e non il suo contrario. E che non è sempre vero che piccolo è bello. Separarsi, staccarsi, disgregarsi, produce sempre debolezza. L’illusione di fare meglio se si fa da soli si rivela quasi sempre, per l’appunto, un’illusione.

Non è bastato l’esempio più eclatante, quello della dissoluzione della Jugoslavia. Quel grande Paese (grande solo per via dell’estensione geografica, s’intende), quando era guidato con mano perfida e sicura da quel furbacchione del maresciallo Josip Broz Tito (1892-1980), qualcosa contava nello scenario internazionale.

Nel senso che, pur essendo un Paese governato malissimo, e con una concezione arbitrariamente totalitaria della democrazia, lucrava da Washington per non allearsi con Mosca (il dittatore se ne andò lasciando un debito multimilionario, mai pagato, con gli Usa), e lucrava da Mosca per non allearsi con Washington.

Ma non era soltanto il suo non allineamento a pagare. Era anche, e soprattutto, il fatto che quello Stato-cuscinetto, posto strategicamente al confine tra l’est e l’ovest, era un Paese di proporzioni vastissime, e quindi la sua posizione, sia in senso politico che geografico, contava molto.

Oggi, dopo la morte del dittatore e la scomparsa della Jugoslavia, i nuovi, piccoli Stati che si sono formati, dalla Serbia alla Croazia alla Slovenia, contano molto meno, per non dire quasi nulla, sullo scacchiere internazionale. Di quello che fanno, pensano, dicono, di quale posizione assumono, sembra non importare proprio nulla a nessuno. C’è addirittura chi non li vuole dentro l’Europa, e li considera solo dei fastidiosi rompiscatole, zingari straccioni che è meglio non avere tra i piedi.

Eppure oggi le piccole patrie vanno di gran moda. E tutti si vogliono separare, convinti che solo così riusciranno a risolvere –poveri illusi- tutti i loro problemi. Nell’Unione Europea, racconta Maurizio Ferrera dalle pagine de “La Lettura” del Corriere della Sera, oggi sono attive una cinquantina di formazioni autonomiste o separatiste. Fanno parte della “Alleanza per la Libertà”, i cui rappresentanti siedono nel Parlamento europeo.

Esiste anche una mappa delle piccole patrie che se ne vogliono andare dalle grandi patrie di origine. Sono 27 in Europa. Sette quelle italiane: Valle d’Aosta, Corsica, Sardegna, Lombardia, Veneto, Sudtirolo, Friuli. Le altre sono: Isole Canarie, Andalusia, Galizia, Paesi Baschi, Aragona, Catalogna, Occitania, Savoia, Carinzia, Baviera, Alsazia, Bretagna. Cornovaglia, Galles, Scozia, Fiandre, Frisia, Slesia, Moravia, Isole Aland.

Molte di loro, per carità hanno delle ottime ragioni per reclamare l’indipendenza, oltre al vantaggio –evidente- di tenersi in casa le risorse fiscali, che per molte di queste regioni, in maggioranza ricche, non sono proprio poca cosa. E’ il caso di questi giorni in Spagna. Barcellona e la Catalogna sono storicamente, culturalmente, socialmente, letterariamente, linguisticamente, cosa molto diversa da Madrid e dalla Spagna.

Il desiderio della Catalogna di continuare da sola il suo cammino è legittimo. E’ il metodo che è sbagliato. Barcellona non può pensare di staccarsi da Madrid con un referendum che è illegittimo. Deve farlo seguendo un’altra strada. Legale. La strada della democrazia e della mediazione politica. Ovvero della creazione di un ampio consenso intorno alle sue ragioni, tale da portare la maggioranza dell’intero Paese Spagna a condividerle, e quindi a sancirne le ragioni attraverso l’approvazione di una legge dello Stato (spagnolo, s’intende).

Tutte le altre scorciatoie, referendum in primis, sono ingiuste e ingannevoli. Detto questo, il governo di Madrid ha sbagliato di grosso, a sua volta, reagendo con la repressione e la violenza a quel referendum che, anche se inutile e illegale, era comunque l’espressione democratica di un’opinione.

L’unica alternativa alla democrazia parlamentare e alle leggi dello Stato è la rivoluzione armata. I baschi dell’Eta ci avevano provato (senza riuscirci). Auguriamoci che la Catalogna non segua questa strada. E se non trova un accordo politico con Madrid, si rassegni a rimanere dentro la Spagna. Tanto noi che andiamo a Barcellona, e ci piace andare a Barcellona, sappiamo che Barcellona è un’altra cosa.

LA PAGELLA

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