La finta Italia
in vendita
a New York
Il mercato del gusto è una bilancia impazzita
La catena internazionale del cibo di lusso all’italiana ha una filiale in puro stile newyorchese. Michael Krondl l’ha visitata per noi. Con una digressione alla corte di Versailles.
NEW YORK — La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la birreria all’aperto all’italiana. Una birreria all’aperto all’italiana? A New York. In che senso? A questo punto i mitici spaghetti & meatballs, gli abituali spaghetti e polpette in sugo rosso che qui spacciano per ricetta italiana sono una pietra miliare dell’autenticità gastronomica. Fino all’arrivo della birreria all’aperto all’italiana tentennavo tra in bilico tra amore e odio, ammirazione e ripulsa, ma ora temo proprio che l’ago della bilancia sia precipitato in una zona tremendamente oscura. D’accordo: forse è un problema tutto mio, chiamiamola una radicale disfunzione relazionale con l’autenticità, e da qui il contorto alternante groviglio emotivo che ho sempre provato nei confronti del più nuovo e alla moda circo all’italiana per il consumatore alimentare: Eataly New York.
Per tutti coloro che vivono fuori dalle coste profondamente narcisistiche di Manhattan, dovrei forse spiegare il fenomeno Eataly New York, che è in effetti un sottoinsieme del varietà massmediatico enogastrocommerciale «Mario Batali Show», che a sua volta è di per sé un sottogenere del mega-gastro-show-business Italian Food International, Inc. Mario Batali è ristoratore americano di molto successo, che all’età di vent’anni rinasce italiano e fonda un impero alimentare all’italiana che si stende da New York a Las Vegas e Los Angeles. Naturalmente: Mario Batali ha una grande presenza televisiva.
Eataly New York è il suo negozio di alimentari, una sorta di ricostruzione iperrealistica di un mercato al coperto di una città italiana di grandezza media o media piccola, come ancora da qualche parte se ne trovano. Si tratta di un franchising dell’Eataly originale da lui aperto nel 2007, anche se la mia impressione insopprimibile è che questa edizione newyorchese sia più stile Rocky IV che una ricostruzione accurata e fedele dell’originale. Ora come ora ci sono una mezza dozzina di Eataly in Italia, e altri quattro in Giappone. A New York, come a Torino, ci sono stand (faccio un po’ fatica a chiamarli banchi, come nel caso dei mercati al coperto) che vendono carne, pesce, pane e cibi vari. C’è una gigantesca sezione dedicata alla pasta artigianale, a Torino di una sola marca, qui no; olio d’oliva dalla Sicilia e dalla Liguria; e un negozio di casalinghi. Potete scegliere tra due caffè, una gelateria e ristoranti con piatti di pesce, pasta e pizza, panini, anche in versione vegetariana. E sì: adesso potete anche andare in birreria, sul tetto. Tutto suona figo, no? E lo è. Se non avete problemi a sborsare 23 dollari e mezzo per un quarto di litro di olio d’oliva (pari a 66 euro e 52 centesimi al litro); sette dollari per mezzo chilo di pasta (a Torino 2 euro e 80) e dollari 3,90 per una pallina di gelato. Però il gelato è davvero buono; tanto da farvi piacere anche tutto il resto.
E allora, la zona oscura, tremendamente oscura?
Permettetemi una breve digressione.
Il duca di Saint-Simon, grande memorialista (e compendiatore di pettegolezzi) della corte di Luigi XIV, racconta di una festa tenutasi a Versailles durante il Carnevale dell’anno 1700. Era stata organizzata dalla contessa di Pontchartrain, moglie del potentissimo cancelliere del Re. La contessa aveva fatto preparare la sua sfarzosa dimora come se fosse una replica della fiera di Saint-Germaine, una grande fiera d’origine medievale che si teneva ogni anno a Parigi nelle settimane precedenti la Pasqua. Per la festa la contessa di Pontchartrain aveva commissionato ogni tipo di bancarelle: «C’erano botteghe Cinesi, e botteghe Giapponesi, e via dicendo, e tutte vendevano ogni sorta di cose, tutte raffinate, bellissime e inaspettate» scrive l’informatissimo duca di Saint-Simon. C’erano anche chioschi per i rinfreschi, con bibite e pasticceria, aranciate e limonate, il migliore di tutti era gestito personalmente da François Procope-Couteaux detto Procope (il siciliano Francesco Procopio dei Coltelli) fondatore del più celebre e letterario caffè di Parigi (appunto a Saint-Germain). Dev’essere stato tutto molto bello, e anche molto buono, ne sono sicuro. E deve esser stato anche tutto completamente autentico e tutto contemporaneamente assolutamente falso. Proprio come Eataly.
Come aveva ben capito la contessa di Pontchartrain, moglie del cancelliere del Re alla corte di Versailles, nell’imitare la fiera di piazza nella festa a palazzo, Eataly è il trionfo delle strategie di mercato. Nessuno si compra un Rolex solo per sapere che ore sono, o guida una Mercedes solo perché è migliore. E nemmeno solo perché costano svariate migliaia o decine di migliaia euro. Nessuno fa le spese a Eataly solo per mangiare. È la rappresentazione simbolica (delle spese fatte e del sé che ha fatto le spese) che conta. Ovvio che a New York questo tipo di rappresentazione simbolica basata sul prezzo e sull’esclusività (o meglio: sulla percezione dell’esclusività) delle spese fatte a Eataly è appannaggio dell’alta borghesia cittadina. Come il ricevimento della contessa di Pontchartrain, che era pur sempre un ricevimento come gli altri anche se assomigliava a una fiera, il New York Eataly elude il fatto che è solo un altro marchio di prodotti, un altro Apple Store o Armani Exchange.
Ma Eataly non usa il linguaggio dell’esclusività e del prestigio (o del costo) per vendere i suoi prodotti all’alta borghesia di Manhattan, usa invece un linguaggio fatto di autenticità, di supporto ai produttori artigianali, di sostegno alle antiche tradizioni. Gran parte di questo linguaggio deriva direttamente dalla grande schiera dello Slow Food (un’altra delle mie idiosincratiche indecidibili relazioni amore-odio). Il mito fondativo di Slow Food è il racconto della scomparsa dei prodotti artigianali e della guida verso la salvezza dal complesso industriale alimentare. Ciò che si trascura di menzionare in questo mito è che la maggior parte dei prodotti artigianali dell’era preindustriale non venivano gustati e goduti da chi li faceva, erano piuttosto venduti per far quadrare i conti, o peggio devoluti in omaggi forzati nei complessi rapporti della società agricola, mentre i produttori artigianali e le loro famiglie sopravvivevano quotidianamente sulla polenta. Ho come l’impressione che ciò accada anche oggi, con l’unica differenza che gli artigiani di oggi si possono permette i prodotti Barilla e Parmalat.
In realtà ciò che Eataly a Torino sta facendo è un piccolo commercio di grande lusso, un mercato in cui gli italiani si sono distinti fin dal Medioevo. È il cibo dei contadini che nessun contadino poteva permettersi; è Marie-Antoinette travestita da giovane mungitrice. Si tratta, come sempre e ancora una volta, di classe e di denaro. Che è ciò che è sempre stato in Europa, da tempo immemorabile. Gli americani ci hanno aggiunto una qualche parvenza di luogo (il mercato al coperto di una città media della penisola) e quel pizzico tipico di hype: un tocco magico di strategia di marketing intelligente che genera una moda irresistibile. L’Italia made in Eataly non è altro che un’idea nella mente di un venditore: se a New York succede (come adesso succede) che le birrerie all’aperto sono di gran moda, basta convincere i newyorchesi che bere birra a 7,00 dollari (sempre meno dei cinque-sei-sette euro dei chioschi del Lido) è all’italiana. Non ci vorrà molto.
Traduzione e adattamento: Luca Colferai