Il matrimonio degli altri
è sempre più rosa

Alle volte, anzi quasi sempre. Invece di affrontare i problemi quelli grossi, ci si accapiglia su questioni bizzarre. Per esempio il matrimonio. Adesso tutti litigano sul matrimonio. Non il proprio. Quello degli altri. E spesso quelli che si imbizzarriscono di più, che fremono sfuriano sfrigolano, non sono nemmeno sposati. E non lo sono neanche stati. Prima. E forse mai lo saranno. Per quante leggi si possano fare.

Difficile resistere alla tentazione di dire delle cavolate, soprattutto sui matrimoni degli altri. Ma visto che tutti lo fanno. Essendo sfuggito vittoriosamente da tre tentativi abortiti prematrimonialmente, propenderei per l’abolizione integrale del matrimonio, se non per questioni dinastiche e o economiche, indipendentemente dal sesso degli sposi e delle spose. Preferisco, e di molto, il patrimonio. Ma è una cosa personale. Se si credete meglio pensare al matrimonio come coronamento dell’amore: bene. Brinderò agli sposi.

Il conte Emile (ve l’aspettavate, no? e appunto, ecco!) un giorno al Caffè Florian in piazza San Marco a Venezia, mi disse. Il Florian — non disse ciò: queste parole sono un preambolo che inserisco qui inopinatamente — era si può dire la sua seconda casa, lì trovava e creava un’atmosfera sospesa nel tempo e nello spazio, dove anche il rintocco delle campane del campanile e dei Mori sembrava provenire da un altro tempo.

«Eppure una volta — raccontava il conte Emile, appoggiando la tazza di cioccolata sul piattino, mentre intorno a noi risplendeva una molto tarda mattina di maggio — ho rischiato anch’io di sposarmi. Ah! Ci pensa? Proprio io!»

Il conte Emile aveva un modo molto garbato di ridere, e lo faceva solitamente di rado, come appunto si conviene ai signori garbati. Dischiudeva appena le labbra, scoprendo una fila impeccabile di incisivi, come se stesse per dare un morso elegante a un petit four. Infatti, cosa che ormai nessuno sa più, non si dovrebbe mai mostrare l’interno della bocca, l’interezza della dentatura, e anche una parzialità della lingua, in pubblico (e nemmeno in privato: solo a un dottore).

«Quando non ero più giovane e vivevo a Montecarlo, avevo una compagna di bridge con cui passavo moltissimi pomeriggi a giocare. Era una signora inglese di poco più matura di me, ma ancora molto bella ed elegante. Avevamo iniziato proprio per caso a giocare in coppia al bridge, ma poi, con il tempo, ci incontravamo anche fuori dal circolo».

Un colombo vola rapido rasente le nostre teste, velocissimo appena sopra sul panama del conte Emile; il cappello ha la stessa sfumatura d’avorio del completo di lino che indossa, sopra una camicia azzurra a righe bianche sottilissime, con scarpe di canapa con punte e rinforzi di cuoio, e cravatta di seta gialla tempestata di gigli azzurri e calzini della stessa tonalità di giallo. Un anello d’oro con un’acquamarina incastonata, discretamente grande.

«Oh!» dice il conte. Ma il colombo è già passato.

«Comunque — riprende — passavamo quindi moltissimi pomeriggi insieme, facevamo passeggiate sul lungomare, ci trovavamo al Jardin Exotique, prendevamo la cioccolata insieme. Poi cominciammo anche ad andare a cena insieme, e anche a pranzo».

Pausa.

«Io mi trovavo benissimo in sua compagnia, era una conversatrice elegante ed educata, poteva parlare di qualsiasi argomento a volte in modo molto spiritoso; vestiva molto bene e, devo dire, era proprio graziosa. Era anche molto ricca. Facevamo proprio una bella coppia».

Un’altra pausa, però un po’ più breve; ne approfitto per un sorso di Negroni.

«E poi un giorno, quasi all’improvviso mi domandò se volevo sposarla».

«Le chiesi un po’ di tempo per pensarci. Come immagina, non me l’aspettavo proprio. Sposare, io? Però devo dire che ero molto tentato: era una compagna deliziosa, e giocava molto bene al bridge. E io cominciavo ad entrare in quell’età in cui rimanere da soli non sembra più una grande idea».

Per via del futuro, immagino: che comincia ad apparire sempre meno roseo del passato(che al contrario rifulge sempre più di rosa). Questo è un pensiero mio, non del conte Emile. Ma può darsi che anch’egli fosse d’accordo.

«Però allora ho pensato: ma mi toccherà di vivere a Montecarlo. In una città moderna. Affollatissima. Dentro un appartamento moderno. Di una città moderna affollatissima. Con i soffitti di una casa moderna!»

Lunga pausa ad effetto. L’azzurro intenso del cielo della molto tarda mattinata di maggio dà agli occhi del conte una sfumatura d’oltremarino, al contempo fosca e birichina. Sorseggio il mio Negroni.

«I soffitti di una casa moderna, soprattutto a Montecarlo, con quel problema di spazio che hanno, non superano i due metri e mezzo. E appunto l’appartamento in cui viveva la mia amica e in cui avremmo dovuto trasferirci dopo il matrimonio aveva i soffitti che non arrivavano a due metri e mezzo. Ma io non posso abitare in una casa in cui i soffitti non siano alti almeno oltre i tre metri e mezzo».

«Così, ho rinunciato al matrimonio e sono venuto a vivere a Venezia dove almeno i soffitti sono alti, e nel mio palazzo raggiungono i cinque metri».

Volano i colombi. Il campanile di San Marco batte l’una. E poi uno dei due Mori la batte anche lui. O forse è il contrario. ★

Il matrimonio degli altri è sempre più rosa