Il mondo nel cellulare

Racconto di solitudine

(fonte: pikrepo.com)

Caro Giulio, quando vieni a trovarmi?

Ma lo sai che sono oramai sette mesi che non vedo nessuna delle persone a me care? …i miei compagni di viaggio. Per carità, i miei figli e i miei nipoti li sento sempre al telefonino e qualche volta, ma con grande difficoltà, sono anche riuscito a vederli, o meglio intravederli, attraverso uno di quei diabolici rettangolini, credo di cristallo, che Michele, il nostro assistente sociale, mi porta un paio di volte alla settimana per parlare e vederli. In realtà io sento solo la voce, non riesco a vederli più, lo schermo è troppo piccolo e la mia vista è sempre più sfuocata. Anzi più che vista, oramai la chiamerei svista. A loro dico che li vedo bene e i nipoti sempre più belli. Non voglio amareggiarli..ma vedo solo buio!

Michele, quando mi fa parlare con loro, mi dice: «maestro, ti porto il cellulare per chiamare la famiglia». Ogni volta che mi nomina il cellulare, il mio pensiero va ai tempi in cui frequentavamo l’Università a Padova, eravamo quasi trentenni e, più per moda che per convinzione, partecipavamo ai cortei del movimento studentesco, ti ricordi Giulio, e sempre si sentiva qualcuno che con il megafono annunciava: «Attenti che arriva il cellulare!» Quei cellulari erano quelli della polizia. Continuo sempre a cercare una affinità tra il cellulare di Michele e quello della polizia, ma credo proprio non esista! E poi qui mi chiamano maestro, non so se perché sanno della mia passione per la musica o perché sanno che ho il diploma di maestro elementare, ma credo che il vero motivo sia che a Venezia quando chiamano qualcuno di cui non sanno il nome dicono: «maestro, scusa…».

Caro Giulio, ma quando vieni a trovarmi?

Be’ lo sai, la mia famiglia vive lontano e non posso pretendere che vengano fin qui per poi vedermi attraverso una vetrata, senza la possibilità di un abbraccio. Qui mi dicono che non possiamo avere contatti perché fuori c’è un virus molto pericoloso per la salute degli anziani, per cui non ci danno la possibilità di un incontro fisico, per tutelare la nostra salute, dicono. Io sarei disposto a morire anche il giorno dopo, ma un abbraccio dai miei figli e dai miei nipoti lo desidero tanto, e non posso pensare di andarmene da questa vita, senza più sentire il calore del loro corpo, il battito del loro cuore che si confonde con il mio, oramai sempre più flebile.

E tu Giulio, ma quando vieni a trovarmi?

In te ho sempre trovato un amico vero, il mio vero amico. Non ricordo più da quanti anni ci conosciamo, eravamo alle elementari e ci trovavamo a giocare a pallone nella corte del condominio o meglio nella corte delle case Incis. Siamo stati tanti anni a cercare di indovinare cosa volesse dire Incis… la nostra fantasia di bambini ci portava a pensare che forse era il nome di un villaggio indiano, quello della tribù degli Incis… ma solo da grandi, e con un po’ di delusione da parte nostra, abbiamo saputo che si trattava dell’acronimo di Istituto Nazionale Case per Impiegati Statali. Caro Giulio, dai vieni a trovarmi. A te credo ti facciano entrare, sei anziano come me. Forse potremmo anche abbracciarci. Qui dentro, oramai, si vive solo di ricordi ed io, per fortuna, ne ho ancora tanti. Sapessi quanti, tra di noi, non ricordano nemmeno cos’è un ricordo… Ogni mattina, quando si svegliano, è come se fosse il primo giorno di vita. L’ unica differenza è che si nasce vecchi, con tutte le difficoltà fisiche che hanno i vecchi come noi. Caro Giulio, sai , l’ altra mattina hanno portato via Piero, il mio compagno di stanza, era da qualche giorno che sentivo che faceva fatica a respirare, e lo aiutavano con la bombola di ossigeno. Hanno messo un paravento davanti al letto, perché io non vedessi, e l’ hanno portato fuori. Io non ho chiesto nulla, Michele è entrato in stanza, non mi ha detto nulla, ha accennato un sorriso e ha passato la sua mano calda sulla mia testa calva. Ora è ancora più triste avere al mio fianco un letto vuoto… dopo tanto tempo questa notte ho sognato, ho sognato che in quel letto c’eri tu, con quel tuo pigiama a righe e la vestaglia a quadretti appoggiata ai piedi del letto. Mi hai fatto un sorriso e mi hai detto: «hai visto che sono venuto a trovarti!»

«Ti porterò fuori — hai aggiunto — appena questo virus se ne sarà andato. Perché prima o poi se ne andrà. Vedrai, ci sveglieremo una mattina e non ci sarà più. Scomparso. All’improvviso, così come era venuto».

E se non dovesse più andar via?

«Ce ne andremo noi».

 

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