Versi diversi
talora perversi

Un funambolico esercizio di fantacritica letteraria

La vena ironica e dissacrante di Paolo Coltro si impossessa del libro di poesie Nuvola Randagia di Enzo Bordin per tracciarne un vistoso elogio universale attraverso le acuminate analisi di eminenti studiosi di diversi paesi e culture. Un omaggio burlesco al poeta italiano in una delirante e immaginifica lectio magistralis alcolica tenuta nottetempo all’università di Tubinga di fronte a un pubblico trasgender e cosmopolita colto ed entusiasta.

TUBINGA — Il critico tedesco Wolfgang Baum Baum è uno dei massimi esponenti della corrente della letteratura razionalista, interprete autentica dell’Urgrund germanico. Sostiene che le poesie del celebre poeta italiano Enzo Bordin sono versi.

Avvalendosi anche del contributo di studiosi di fonetica, di etologi e degli specialisti del centro pediatrico Kinder uber alles, è giunto alla conclusione che sono proprio versi, nel senso di suoni prodotti dall’apparato gastro-laringeo che solo apparentemente hanno sembianza di parole. Per sostenere la sua tesi, ha dato pubblica lettura delle strofe bordiniane leggendole come se fossero tedesco, e gli ascoltatori se ne sono accorti dall’ossessiva pronuncia della g dura. La dimostrazione è stata convincente.

Convinto che si tratti di veri e propri versi, come quelli degli animali o dei bambini, o meglio ancora come quelli dell’uomo di Cro Magnon che popolava le caverne della Bassa Sassonia, proprio vicino a casa sua, Baum Baum li ritiene un fondamentale episodio di proto-letteratura, in grado di esprimere l’essenza primordiale, quindi più autentica e vera, del sentire umano. Il limite di questa espressione è una scarsa comprensione da parte degli altri, ma questo nulla toglie al loro valore, che è superlativo per l’autore: il quale coincide con l’unico essere in grado di capirli. Questi versi sono dunque, per Baum Baum, la pietra angolare dell’individualismo, radice profonda, tronco e chioma dell’essere germanico. Messo al corrente che il poeta Enzo Bordin è nato a Bertesinella, vulgo Bartesenèa, periferia di Vicenza, Italia, l’illustre docente ha rivelato che è fortemente possibile che lo spermatozoo generatore di Bordin appartenesse alla Wehrmacht, cioè ad uno dei militari germanici in quegli anni occupanti la zona di operazioni di Fichenza, pronuncia tedesca della città del Palladio.

“Baum Baum è un cane”: questo il giudizio tranchant di Helmut von Stroppenbusen, illustre critico tedesco storico avversario accademico di Baum Baum. Staccatosi in giovane età dalla corrente razionalista (la ritenne fallace dopo essere stato investito da un treno ad un passaggio a livello in Turingia: “Sbarre dofevano essere abbassate”, disse al pronto soccorso) è diventato esponente di punta del romanticismo post marxiano, che in Italia ha moltissimi seguaci riuniti nel movimento “Accontentarsi di poco”. L’analisi di von Stroppenbusen è antitetica a quella di Baum Baum: sostiene che quelli di Bordin sono versi di versi.

Riconosciuta l’identica radice fonetica gastro-laringea, il nostro argomenta che il successivo assemblaggio di lettere forma parole intelleggibili e che l’accostamento di queste parole diventa vera poetica. I versi di versi saltano a piè pari il passaggio comune agli altri mortali dell’alfabetizzazione, sono traduzione diretta del suono primigenio prodotto. Ed è per questo che costituiscono espressione altissima di verità, senza mediazioni né meditazioni. Sono in grado, perciò, di esprimere i sentimenti più schietti: la fame, la sete, il dolore, il sesso o quasi sempre la sua assenza, l’estasi, la rabbia, la malinconia ci vengono sbattuti in faccia con una forza inusitata. Tutto ciò è la quintessenza del romanticismo, o meglio del post romanticismo, ai nostri giorni più crudo e veloce. I seguaci italiani di von Stroppenbusen, rimasti letterariamente orfani dopo l’arresto dell’accademico per una serie di violenze carnali, hanno eletto tutto il corpus dei componimenti bordiniani a inno del movimento “Accontentarsi di poco”.

Inglesi contro tedeschi

A far da contraltare alle tesi tedesche, è sceso il campo il critico inglese Gay Gay Fitz-Hole, il quale ha entusiasticamente sostenuto che quelli di Enzo Bordin sono “versi diversi”. La sua è stata una folgorazione: di fronte al noto componimento “Tonda quel tanto che mi dà tormento”, riferito alla coscia del partner, si è detto sicurissimo che non si tratta di una donna, bensì di un uomo.

Ha pubblicato sulla nota Cambridge Literature Queer Revue, una profonda analisi sulla poetica di genere scaturita da Bordin. Per un deprecabile errore di traduzione nell’edizione italiana, dovuta ad un apprendista redattore co.co.co. che nei sei mesi precedenti aveva fatto il muratore, il barista, il modello, il giostraio, il giornalista, l’avvitatore di lampadine, il pizzaiolo porta a porta ed era anche rimasto disoccupato una settimana, dicevamo del deprecabile errore nella traduzione italiana che definisce quella di Bordin “poesia degenere”. Stupiti, i seguaci italiani di Gay Gay Fitz-Hole hanno contestato il loro guru e hanno fondato il movimento “Po-etica”, con il trattino, il cui nome è stato suggerito dal noto filosofo Um-berto Cu-ri. In realtà il nome doveva essere scritto in un’unica parola, “Poetica”, ma l’apprendista redattore co.co.co., stampando il manifesto del movimento, ha composto il termine proprio in fondo all’ultima riga, per cui è andato a capo spezzando la parola.

Alcuni componenti del movimento, provenienti dall’altro movimento “Arte involontaria” hanno ritenuto l’accaduto come il palesarsi creativo del caso e hanno imposto il nome “Po-etica” come ufficiale. Il movimento, peraltro, ha dovuto subito confrontarsi con una scissione interna: un gruppo leghista ha cercato di impossessarsi del marchio “Po-etica” rivendicando evidenti riferimenti padani: la causa civile in tribunale scioglierà il nodo, presumibilmente, nell’autunno del 2027.

Di fronte al malessere dei suoi seguaci italiani, il critico inglese Gay Gay Fitz-Hole, che è di manica larga, ha cercato la reunion riportando la discussione sul piano più squisitamente critico. Ha spiegato come il termine anglosassone “queer”, che significa eccentrico, deriva dal tedesco “quer”, che significa “di traverso, diagonalmente”. E ha sostenuto che niente più dello sguardo poetico di Bordin è di traverso, diagonalmente, con ciò consacrandolo ad icona queer. E il dibattito, fortunatamente, è proseguito sul piano interpretativo. Intriganti, riflessive e profondamente umane le questioni poste da Gay Gay Fitz-Hole sui versi conclusivi di “Tonda quel tanto”, quando Bordin scrive icastico: “Voglio viverti e morire”. A parte i riferimenti, ovvii, all’eterno connubio tra Eros e Thanatos, Fitz-Hole ha approfondito, almeno per una ventina di centimetri, il tema del connubio; e poi quello della morte. Ponendosi domande angosciate: morte per amore o di Aids? Citiamo solo en passant l’interpretazione critica del gruppo leghista di “Po-etica”, incapace di andare oltre il minimalismo, secondo il quale “versi diversi” significa solo che non sono uguali tra loro. La forte base concettuale del loro ragionamento è che, se così non fosse, avremmo esclusivamente poesie di una sola riga. Gay Gay Fitz-Hole ha fatto sapere che l’argomentazione gli pare un Po debole.

Sarò Franco

In Ispagna son già 1003 le citazioni e le recensioni dell’opera di Bordin. Le più acute sono opera di un singolare professore di lettere di Madrid, Felipe Castillo y Palacios, erede di una schiatta di grandi proprietari terrieri ed immobiliari corteggiati, esattamente come le Cortes, dal franchismo ma disastrosamente abbattuti dalla bolla immobiliare spagnola. Ma a Felipe il castillo e i palacios sono rimasti nel cognome. La sua è un’esistenza tutt’affatto particolare: ha trascorso in galera quasi metà della sua vita. E questo per la sua abitudine di iniziare le conferenze cui era chiamato, massimamente come maggior esegeta iberico di Enzo Bordin, con una dichiarazione di sincerità genuinamente spontanea: “Sarò Franco”. Questo naturalmente nella Spagna franchista provocava un allarme istituzionale, una palese minaccia al potere, e regolarmente, dopo quelle due parole, la conferenza non iniziava mai perché arrivavano la Guardia Civil, la polizia politica, i carabineros, e dopo aver risolto le questioni di precedenza e di competenza con un bel po’ di duelli all’arma bianca, si portavano via il povero Felipe Castillo y Palacios.

Essendo il mondo istituzionale spagnolo, così come quello popolare, profondamente impregnato di cattolicesimo, aspettavano tre giorni per vedere quello che succedeva o sarebbe potuto succedere. Ma non succedeva niente, Felipe restava Felipe e quindi veniva rimesso in libertà. Avendo il professore in programma una conferenza la settimana, tre giorni su sette li ha sempre passati in cella. Il lato più tragico della questione ha riguardato in fondo Enzo Bordin, perché così non c’è mai stata in terra spagnola una conferenza sulla sua poesia e il popolo ne è rimasto all’oscuro, riuscendo così in una decina d’anni a colmare il gap con il resto d’Europa. Il professor Felipe Castillo y Palacios è riuscito comunque a produrre scritti egregi sui versi bordiniani, soprattutto nella calma del manicomio in cui è stato rinchiuso in questi ultimi anni. E anche questa è una vicenda singolare. Questo epilogo inatteso si è avuto quando il professore ha avanzato una proposta al ministero della Giustizia spagnolo. Ha suggerito di cambiare la formula del giuramento che i testimoni pronunciano prima della deposizione in tribunale.

La cattolicissima Spagna non aveva mai cambiato, dai tempi di Ferdinando ed Isabella, questa formula, che è la seguente: “Conscio della responsabilità che mi assumo davanti a Dio Padre, preso singolarmente; e a Gesù Cristo, preso singolarmente; e allo Spirito Santo, preso singolarmente; nonché davanti alla Santissima Trinità, presa collegialmente; nonché alla vergine santissima Maria madre di Dio; nonché a tutti i santi di cui, con il consenso della Corte, si dà per letto l’elenco compresi gli allegati A, B e C dovuti alle canonizzazioni degli ultimi tre pontefici; nonché agli arcangeli e agli angeli; nonché al nostro re (e qui il nome del re pro tempore), sovrano per diritto divino, giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”. La formula, obbligatoria per legge come la presenza di un valletto che sosteneva una Bibbia regolamentare stampata a torchio nel 1572 (poi riprodotta in milleseicentoventisette copie anastatiche per tutti i tribunali spagnoli) del peso di chilogrammi tre virgola sette era un po’ lunga. Spesso, in presenza di più testimoni, restava poco tempo per le deposizioni, con l’allungamento cronico delle procedure di giustizia.

Il buon Felipe Castillo y Palacios propose al ministero della Giustizia di sostituire la predetta formula di giuramento con un più conciso e laico “Sarò Franco”. Venne internato immediatamente in manicomio, dopo il solito duello che stabilì che aveva ragione chi sosteneva che la proposta era attentato alle istituzioni e oltraggio alla corte e non chi propendeva per la consueta minaccia individuale per la quale Felipe era noto. Così invece che per tre giorni in cella finì in manicomio. Dove finalmente poté dedicarsi a Bordin. Lesse e rilesse, scompose e arguì, analizzò e approfondì. Poi espresse il suo giudizio, che si basava sulla genuinità e sincerità del fare poetico di Enzo: “Bordin è Franco”. Un giudizio apprezzato e condiviso nella Spagna pacificata, a parte qualche mal di pancia della sinistra, l’aperta opposizione degli indignados e oscure minacce dell’Eta. La diffusione delle opere di Bordin in Spagna e in tutto il Sudamerica ebbe un buon successo, ma con un antipatico inconveniente. Equivocando sul giudizio letterario di Felipe Castillo y Palacios, il giovane co.co.co. della tipografia di Barcellona che impaginò il libro “Nuvola randagia” lo attribuì a Franco Bordin, con conseguente perdita dei diritti d’autore. Il duello che il tipografo co.co.co. dovette affrontare per difendere le sue ragioni lo vide vincitore, perché negli ultimi sei mesi aveva fatto il surfista, l’animatore di villaggi turistici, il cuoco di paella, il gigolò a Formentera, ma soprattutto, dopo un breve periodo di disoccupazione, aveva imparato a maneggiare la spada come torero. Ci furono, per il povero Bordin, anche difficoltà di distribuzione perché, dopo la caduta del caudillo, erano stati aboliti il franco posta e i franco bolli. La scomoda detenzione di Felipe Castillo y Palacios venne risolta spedendolo in Francia: in quel Paese, stabilì una commissione di esperti, non avrebbe potuto fare alcun danno. E così fu.

Un miliardo di copie

“Nuvola Landagia” è il titolo dell’edizione cinese, subito distribuita in un miliardo di copie stampate su carta di riso. All’interno il testo è in italiano corretto, dato il numero di studenti cinesi che studiano l’italiano, circa mille volte più alto degli studenti italiani che studiano il cinese, il che consentirà ad un italiano di parlare con mille cinesi e a mille cinesi di parlare con un italiano. Ma è corretto solo perché l’autore, Enzo Bordin, ha affrontato un lungo viaggio per portare in tipografia un file con tutte le “erre” possibili e immaginabili, in tutti i font e i corpi disponibili. Purtroppo non è arrivato in tempo per la copertina della prima edizione, che era già stata stampata, e che quindi porta il titolo “Nuvola landagia” e cita come autore En-zo Boldin, suscitando le proteste, per uso apocrifo del cognome, di un oscuro usciere del consiglio di quartiere quattro di Treviso. Il giovane tipografo di Shangai assunto a tempo determinato, ottomila ore l’anno, cioè ventitrè al giorno, stava facendo una protesta sindacale sostenendo che nell’anno bisestile, fra tre anni, avrebbe avuto diritto ad un giorno libero. Ma l’unico a sostenerlo è stata Amnesty International. Lo zelo del giovane tipografo era comunque esemplare, la sua velocità di produzione impressionante. Peccato che il titolo della seconda edizione sia stato “Nuvora randagia”. Per rimediare, ha promesso che per la copertina della terza edizione farà gli straordinari.

Otto Nove

In Italia lo scopritore dei versi di Enzo Bordin è stato, quand’erano ancora scritti sulle pagine gualcite di un vecchio quaderno a quadretti, lo zio dello scrittore Aldo Nove. Al quale, per via di un rigoroso nonno tedesco, è stato imposto il nome di Otto. Otto Nove aveva la strada segnata, soprattutto dopo aver passato un’infanzia difficile. Si sa quanto i bambini possano essere cattivi: e infatti, per brevità, lo chiamavano Diciassette e pensavano portasse una sfiga maledetta. Anche il povero Otto pensava di essere un po’ sfigato, ma poi, quando ha visto il suo nome scritto più e più volte sulle pagelle di scuola s’è rinfrancato. Così l’hanno fatto studiare. E’ diventato, negli anni, il teorico più quotato della commistione tra aritmetica, volendo matematica, e letteratura. Una delle sue leggi fondamentali, peraltro ignorata da schiere di editori, è “Scrive solo chi ha i numeri”. La summa delle sue ricerche è un volume in parte autobiografico, “La prova del Nove”, che è diventato anche un programma tv per la fascia protetta.

Una volta l’autore è stato invitato in diretta e ha raccontato un gustoso aneddoto: il suo imbarazzo quando il maestro gli chiedeva “Sei Nove?”e lui non sapeva che operazione fosse, ed era troppo piccolo per conoscere alcunché del 69. Invidiava con tutto se stesso il compagno di banco Perotto Gigino, che quando il maestro gli chiedeva “Sei Perotto?”, lui rispondeva sempre “quarantotto”. Alla terza sberla Perotto rispondeva sì. Dunque il nostro Otto Nove è stato tra i primi ad occuparsi delle poesie di Bordin, definendole da dieci e lode. Questo provocava delle apparenti contraddizioni quando si leggeva, per esempio, che sul libro di Bordin era arrivata una recensione da Otto Nove. Bordin veniva accusato non di avere, ma di dare i numeri. E comunque l’intelaiatura critica costruita da Otto Nove era assolutamente affascinante: indagava tutti i rapporti numerici tra le sillabe, le parole, i versi e le strofe, indagava perfino sulla lunghezza delle pause, chi più e chi meno, metteva in relazione lo svolgersi dei versi con il battito cardiaco dell’autore e dell’uditorio, insomma calcolava tutto quello che era possibile calcolare.

Poi improvvisamente Otto Nove ebbe un crollo psicofisico, subito dopo aver scritto, lui letterato, un libro sulle sette religiose. Andò in crisi per particolari che sembrano insignificanti, ma che bisogna vivere per capire. Quando lo invitavano alle cene, per esempio, attorno a lui c’erano sempre da sei a sette posti vuoti, quella volta che si stabilì con la famiglia a Nove di Bassano fu un problema serio per l’anagrafe perché cognome e indirizzo erano la stessa cosa. E poi qualcuno aveva cominciato a prenderlo per un ebreo. Non poteva mai comperare otto o nove pezzi di qualsiasi prodotto, perché avete mai sentito uno che dice al negoziante il proprio nome e cognome? Uscì dalla crisi (mica tanto: quando gli nacque un figlio lo chiamò Primo, e fu contentissimo che fosse maschio, perché altrimenti avrebbe dovuto chiamarla Prima, e già qui ci sarebbe stata confusione, ma soprattutto avrebbe dovuto battezzare Dopo il successivo) anche grazie alle poesie di Bordin.

Il nostro poeta, commosso per la stima, avrebbe voluto ringraziarlo, e quante volte ci ha provato: ma sbagliava sempre il numero di telefono.

Paolo Coltro., Enzo Bordin, Nuvola Randagia - Poesie (I…

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