Trenta nodi di bora

Seicento miglia nautiche in cinque giorni

A primavera, sconsolato, osservo il Contender. Nobile barca. È lì, a terra, vicino a un grosso albero. L’ho acquistato senza praticamente mai usarlo, e una barca non usata è una barca condannata a morte. Ma non si può condannare all’inedia ciò che per natura è nato veloce, agile e scattante. Non è possibile una condanna a morte tramite tortura lenta, atroce, inesorabile. E lei, lei mi guarda appoggiata sopra un carrello, mi scruta e dolcemente mi dice: proprio un bel cretino sei.

Perché mi hai comperato se neanche mi usi? Bastardo. Io sono il Contender 733 Pioneer, non una cosa morta. Così mi uccidi. Liberami, ti prego, che voglio solcare i mari. Liberami, liberami! Assorto nel dialogo col natante non mi accorgo dell’avanzare di un mio coetaneo dal lungo capello raccolto, orecchini fatti con le conchiglie e una sincera e onesta aria da freak che mi ricorda, specchio della vita, la mia di circa venti anni prima. Mi fa i complimenti per la bella barca e subito inorridisce alla notizia che la venderò, così iniziamo a chiacchierare, ed esterno da lì a poco la mia intenzione di imparare a regolare le vele delle piccole derive per poi arrivare a barche più grandi.

È uno skipper con sessantamila miglia nautiche e una puntata a Capo Nord con una piccola barca a vela priva di motore: sinceramente sembra un po’ matto ma competente e abbastanza uomo da avere almeno una storia da raccontare. Anch’io, sinceramente, non posso che annoverarmi come matto, cosa della quale, peraltro, mi vanto da anni, specialmente dopo aver sperimentato che gli esseri umani più pericolosi incontrati nelle mia avventurosa vita, in genere non bevevano, non fumavano e oltre ovviamente a non bestemmiare, conducevano una vita assolutamente normale, anzi normalissima. Per qualche giorno parliamo. Il feeling è buono, anzi ottimo: il capitano parla volentieri di vela e io, come una spugna, assorbo, assorbo altrettanto volentieri la passione che trasuda dall’essere umano quando questo ama la cosa che sta facendo o della quale sta parlando. E così nel capitano riconobbi la prima e forse non scontata dote di un velista: la passione smisurata ed inenarrabile, che a volte rasenta la follia.

Esco ancora qualche giorno con il 4.20 tentando di coinvolgere la bimba di sette anni e mia moglie, non proprio entusiasta dell’idea, e durante una calda giornata di metà aprile, portati da un flebile venticello, navigo in laguna. Mentre osservo mia figlia felicemente imbracata nel suo giubbotto nautico giallo e arancio, comprendo finalmente e amaramente che il nostro amore è finito, concluso. Quattordici anni di vita in comune terminati, dissolti, game over. La bruma mi avvolge lenta e inesorabile, portando una profonda tristezza nel mio cuore, e rammarico, rabbia e il dolore della sconfitta, dolore fisico, mentale, mentre il cuore sprofonda greve ricordandomi che la sconfitta, per quanto onorevole sia, è sempre dolorosa, e in proporzione all’importanza della partita giocata porta con sé un suo carico di dolore specifico.

Nel silenzio dell’osteria

Torno a casa sotto un tramonto cupo in un cielo grigio, e dopo una buona mezz’ora di inutili tentativi di studio e di costruttivi propositi per il futuro, decido solo che è meglio andare al pub.
Un occhio nero, un dito rotto, il corpo dolorante e un lungo taglio superficiale sul polpaccio destro. «Porcassa! Ce le hanno suonate di brutto». Spuntò nel silenzio dell’osteria la voce severa di Maffio. «Bella batosta» ripeté guardando male gli altrettanto malconci suoi compagni abbarbicati sopra i tavoli il cui unico intento era quello di restare più attaccati possibile al bicchiere, unico antidolorifico naturale a disposizione. Maffio è alto e forte, voga quasi tutti i giorni per passare la laguna marcia, lì verso le foreste, a prendere legno di tutte le misure e per tutti gli usi, a tagliare giunchi con i quali poi imbonire il terreno; grossa fatica ma buon affare, ottima resa per la sua borsa e per la crescita ed il benessere della sua Serenissima.

Maffio e i suoi quindici uomini, Nicoloti purosangue nonché vincitori incontrastati delle ultime gare, le avevano veramente prese di brutto dalla squadra dei Castelani, e Maffio ce l’aveva con quel ponte maledetto. Porta sfiga quel ponte di San Barnaba. I suoi, zitti, pesti e ormai abbondantemente ubriachi, pensavano invece ai giorni seguenti quando sarebbero sicuramente stati oggetto di lazzi, scherzi e prese per i fondelli da parte della popolazione e degli stessi Nicoloti. Che vergogna la sconfitta. Finirono di bere la mattina presto quando l’oste Fernando, detto Nando, ma chiamato El Pansa dagli astanti abituali, li cacciò con le male parole che bene si addicono a degli ubriachi perdenti, e loro si avviarono mesti e mogi diradandosi ognuno a casa sua nella umida nebbia mattutina. Un indescrivibile senso di vuoto spunta dalla bruma che avvolge il mio cuore. So che devo reagire presto, altrimenti perirò, resterò schiacciato e ferito mortalmente dal trasformarsi della vita, resterò prigioniero di un passato irripetibile, di un sogno non realizzato.

Albeggia mentre arranco sull’ultimo ponte prima di rientrare a casa. Suppongo sia stato ampliato durante la notte e così constatando, trascino le pesanti gambe. La schiena mi duole, così come la testa, la gamba, la chiappa, il polso destro. Anch’io stanotte le ho prese di brutto da due infidi tipi dall’aria innocente incontrati quasi per caso. Non posso dire i loro nomi per la privacy, ma posso dare indicazioni: Rosso e Rhum. Il capitano è un sognatore, un poeta del mare che non vorrebbe neanche il motore a bordo. Sa di carteggio, sa di sestante, sa di mare, sa di persona pratica. Basta chiacchiere, ora si va. Basta teoria, voglio la pratica. Si va, si va, si va.

La prima navigazione

Cinque maggio 2013, noleggio un Benetau 36.7, una barca a vela che mi sembra enorme, ma soprattutto piena di cime bianche di varia grossezza e marchingegni dallo sconosciuto uso, randa da regata con una mano sola di terzaroli e fiocco che ha l’aria di essere alquanto più vecchio della barca stessa. C’è anche un palo in alluminio che scoprirò successivamente essere il tangone. Be First è il suo nome. Saremo in tre all’andata e due al ritorno, così cogliamo l ‘occasione per dare un ulteriore senso al viaggio dando un passaggio all’armatore e skipper R., diretto a Milna e atteso dal suo catamarano di dieci metri

Breifing prima della partenza dove, mentre il capitano illustra le dotazioni di bordo, io, tentando di darmi quell’aria di chi capisce quello che gli stai dicendo, annuisco di tanto in tanto ripetendo in genere una delle ultime parole tecniche appena pronunziate, mentre in realtà sono così eccitato da questa nuova esperienza che non riesco ad ascoltare, preso da tumultuosi pensieri, quanto profondamente intimorito, così attendo la fine della piccola riunione per ribadire con orgoglio la mia completa e assoluta ignoranza in materia nautica, ma anche la ferma intenzione di apprendere. La notizia non meraviglia nessuno e così mi sento molto meglio.

Si va. Partenza ore tredici del cinque maggio, rotta per l’isola di Brazz, dritti in mezzo all’Adriatico verso Spalato, duecento miglia nautiche da coprire e, anche se le prime ore le facciamo a motore, guardo con immenso piacere la costa scomparire. Il capitano al quale mi sono affidato ha le idee chiare, molto chiare, come avrò il piacere di comprendere meglio l’anno seguente. Mi aspettavo, o meglio mi ero immaginato, ore di carteggio, uso delle dotazioni di bordo, Vhf o chissà quale dei tanti argomenti che permeano questo nuovo mondo. E invece, invece niente. Le regole, per me, per questo primo viaggio, sono queste, e il capitano me le pone come un assioma: niente strumentazione di bordo, niente pilota automatico. Devo timonare seguendo la bussola e guardando le vele. Ovviamente lui si occuperà della rotta, della regolazione delle vele, mentre io di mettere a posto dopo ogni manovra. E timonare, timonare con turni di due ore ciascuno.

Arriva la prima notte e con una decina di nodi alle spalle vedo balenare un radioso sorriso nel volto del capitano. Tangone fuori e fuori lo spi, in una notte quasi senza luna, dove il buio denso inghiotte mare e cielo e il poco vento alle spalle non aiuta. Lo spi si affloscia mentre tento invano di vedere un’orecchia bianca di uno spi bianco in una notte nera. Ho paura di strambare e a metà del mio turno inizio una serie di evoluzioni pseudo-velistiche sulle quali sorvolerò per pietà di me stesso, finché esce R, probabilmente richiamato dalla veemenza delle mie parole, ammetto forse volgari, con le quali sto descrivendo in un impeto sicuramente non molto signorile, a me stesso ovvio, la mia parte emotiva, la personale visione di alcuni argomenti generici e di alcune altre cose. Sono furibondo. Perché sono impotente. R. mi osserva per qualche secondo prima di dirmi ridendo di dare ogni tanto un’occhiata alla bussola e di lasciar perdere il resto, windex compreso.

Le onde, le piccole onde che arrivano da poppa, guarda quelle, e saprai sempre da dove viene il vento. Tiene la barra per un paio di minuti poi se ne torna a dormire, lasciandomi pensieroso e affascinato dalle innumerevoli abilità necessarie ad uno yachtman, ma anche conscio dell’enorme distanza che devo coprire per divenire uno skipper. Mentre inizio ad avere un’altra percezione del Be First, dimentico le recenti paure e inizio a godermi il timonare. Mi spunta un sorriso, forse ebete ma un sorriso, ed è lo stesso con il quale mi ritrovano R. e il capitano la mattina verso le sei. Ho timonato per due turni senza accorgermi del fluire del tempo, senza fatica apparente, immerso in un magnifico niente sino alle prime luci dell alba.

La sexy poliziotta

Giorno e notte seguente scorrono mostrandomi altri ritmi di vita: il tempo è bello, il vento mai forte e dopo circa quarantasei ore atterriamo nella graziosa caletta di Milna dove, lasciato R. Al suo catamarano e fatta una debita doccia nella piccola marina, ripartiamo per coprire la trentina di miglia che ci separano dalle pratiche doganali nell’isola di Komiza. Là è notte quando, dopo tre ore di attesa, espletiamo in un buio ufficio posto in cima al molo del piccolo porticciolo, le pratiche necessarie: una mezz’ora durante la quale tutti e due restiamo sognanti di fronte a una professionale ma super sexy poliziotta croata, con tanto di pistola e manette, che sembra uscita, così perlomeno nelle nostre fantasie, da un numero di Penthouse. Onestamente avremmo fatto di tutto per farci arrestare.

Al mattino,breve cambusa a Lissa, e ripartiamo per Caorle con le prime due ore di nudismo velico: è una bella giornata di sole dove a poco il vento si spegne costringendoci a usare, con ovvio disappunto del capitano, il motore. Lui odia il motore, la benzina, i pericoli nell’avere infiammabili a bordo. Alla fine, sono solo cent’anni che esiste nelle imbarcazioni, prima si faceva senza. L’Adriatico è piatto, celeste, e sotto il debole sole di maggio i delfini saltano in mezzo al mare, banchi di meduse giganti, tartarughe e scie di piccoli pezzi di plastica che scorrono per un paio d’ore a fil di corrente inquietandoci il cuore. Vorremmo fermarci e raccoglierle tutte con una grande rete, vorremmo non sentirci della stessa razza di chi ha gettato quelle cose in mare, vorremmo forse dire che non è colpa nostra.

Nel primo pomeriggio finalmente un poco di vento. Vento contro, perché proviene quasi sempre dalla direzione nella quale vuoi andare (e questo è un mistero che da novizio della vela non mi sento di affrontare). Gioia del capitano nel tirar su tela e via dalla costa che finalmente sparisce con grande gioia di entrambi, perché la costa fa paura. Meglio in mezzo al mare, così qualsiasi cosa succeda hai tempo e spazio per reagire. La notte passa veloce ai primi di maggio, e la mattina il vento ha girato al traverso, dieci-dodici nodi che nel pomeriggio si rinforza. Ora siamo al lasco con diciotto-ventidue nodi e onde che mi sembrano giganti, mentre il capitano mi mostra come condurre la barca quando l’onda ci raggiunge a poppa. Le sue parole sono calme e pacate, così come i suoi gesti. Lo osservo, e come da piccolo rubo con gli occhi, come dicevano bene i nostri vecchi.

Uscito con in mano un rotolo di nastro di carta, e levata la mascherina che copriva il display della strumentazione elettronica, il capitano copre quasi tutto lasciando fuori solo il dato della velocità del vento reale e mi saluta . Dopo circa un’ora il vento che proviene dal Quarnaro è aumentato, così le onde, e io non ho proprio la sensazione di condurre la barca. Stringo i denti, forza, duri i banchi. Onde in faccia mi bagnano, il vento urla, l’ultima onda l’ho anticipata male, e sento il timone duro che non riesce a contrastare…porc…mer.. .e una specie di suono, tra l’urlo e la supplica, esce dalla mia bocca. Ventotto nodi! Invocazione al capitano che, salito in coperta con la calma di chi deve scegliersi il dopobarba, sorride, prende il timone che in mano mia scottava, spiega come far contento il Be First mentre timona noncurante della tempesta che dopo poco, effettivamente, si riduce, o meglio si riduce la mia paura. Il vento fischia e non urla, il mare mi spruzza e le onde sono di un paio di metri, non di dodici.

Resto incantato dalla sua pacatezza, e dopo una decina di minuti, passatami la barra, con un semplice sorriso si defila sotto coperta urlandomi: chiamami se sale a più di ventotto nodi. Timono decentemente durante il mio turno, finalmente inizio a sentire la barca. Evviva. L’ultima notte è meno piacevole, il vento ruota, rinforza, e dobbiamo ammainare tutto con trenta nodi di bora quasi contro. Il fiocco, già logoro, nel tardo pomeriggio si è strappato all’altezza della mura, e la randa, purtroppo, è da regata con una sola mano di terzaroli. Atterriamo a Caorle prima dell’alba: seicento miglia nautiche percorse in cinque giorni. Sbarco barcollante e bacio il Be First. Grazie, grazie per averci riportato a casa. Grazie, Capitano.

Sono le 4,30 del mattino; barcollo sul molo mentre mi avvio alla ricerca di un bar aperto. Vedo chiaramente la città muoversi,le case ondeggiare ed i marciapiedi fluttuare anche quando mi fermo. Bastano tre panini ed un paio di pinte di birra a testa per rifocillarsi, festeggiare il mio piccolo battesimo del mare e per bloccare, in una sola ora, l’intera città che non fluttua più, né si muove… direi piuttosto siamo noi due a barcollare. Torniamo al Be First,due ore di sonno e decido di noleggiare ancora…Tra dieci giorni… almeno per una settimana però.★

Fine della terza parte
(continua…)

Venezia nel planisfero di Cantino (1502, fonte wikimedia…

Trenta nodi di bora