In trappola

Il piacere perverso della gabbia

Dal Brasile una metaforica riflessione sulle trappole, le prigioni, le gabbie nelle abitudini degli esseri umani e nell’ecologia del pianeta. La perversa idea della gabbia nacque probabilmente per soddisfare l’ammirazione degli esseri umani verso il mistero e la bellezza degli uccelli. Bisognerebbe invece cercare questi suoni nel loro ambiente naturale, e almeno offrire agli uccelli luoghi adatti nei giardini, con abbeveratoi, alberi da frutto e piante da seme.

FLORIANÓPOLIS — Nelle culture del mondo antico i rapporti domestici con i gli alati abitanti dei cieli erano molto frequenti, per scopi ornamentali o sonori. I Romani nobili o semplicemente ricchi importavano dall’Asia e dall’Africa uccelli esotici e incaricavano degli schiavi del mantenimento in cattività dei loro volatili preferiti. Nell’antico Egitto le specie predilette erano i piccioni e i pappagalli, in India i merli parlano ed anticamente erano considerati graditi alla divinità proprio perché dotati di favella, o almeno di una discreta capacità imitativa (il comune merlo indiano è scientificamente Gracula religiosa Linnaeus 1758).

La perversa idea della gabbia nacque probabilmente per soddisfare l’ammirazione degli esseri umani verso il mistero e la bellezza degli uccelli.

Ancora una volta, il paradosso dell’amore che soffoca e finisce per uccidere ciò che ama; oppure la semplice invidia che spinge a privare gli esseri alati del loro bene più evidente e prezioso, la libertà.

Così la supremazia del genere umano si concretizzò in gabbie e voliere per tenere prigionieri tra le mura delle sale e dei saloni dei palazzi canti e colori degli uccelli.

Bisognerebbe invece cercare questi suoni nel loro ambiente naturale, e almeno offrire agli uccelli luoghi adatti nei giardini, con abbeveratoi, alberi da frutto e piante da seme.

Qui nell’isola di Santa Catarina i discendenti degli azzorriani (ricordo che il nucleo più importante di coloni occidentali venne installato dalla corona portoghese trasferendovi alcune centinaia di abitanti delle Isole Azzorre) adorano camminare con una gabbietta in mano, dicendo che portano a spasso l’uccello (in portoghese non ci sono gli stessi doppi sensi che da voi). Si solito di tratta di coleirinha, sabiá, trinca-ferro oppure curió oggi sempre più raro in libertà. Ricordo che negli anni sessanta gli abitanti della mia zona, a Florianopolis, avevano tutti gabbie e voliere, spesso destinate all’allevamento; alcuni allevavano anche galline nei pollai, sebbene ci trovassimo in centro città. Nella mia via da una parte c’erano i canarini allevati da Seu Bazinho, dall’altra parte i sabiá di Seu Daniel Pinheiro, proprio davanti a casa Seu Abelardo aveva moltissime gabbie, però aveva anche un frutteto ricco di uccelli che s’involavano dando l’allarme quando noi ragazzini c’intrufolavamo a conteder loro qualche frutto; e non ci restava che scappare sul vicino campo da calcio del glorioso Avaí Futebol Clube isolano.

Anche mio padre tenne sempre per tutta la sua vita un qualche uccellino canoro, però la sua specie preferita era il cardinale (Paroaria una famiglia di uccelli sudamericani dal bellissimo piumaggio rosso, in varie fogge, sul capo). Ebbe anche un’araponga (Procnias nudicollis) che durò in casa solo una notte. Quando alle prime luci dell’alba iniziò il suo canto, e pimm! e pimm! e pimm!, con lo stesso tono, la stessa intensità, lo stesso suono e la stessa cadenza di un martello violentemente battuto sull’incudine da un nerborutissimo fabbro — ed è per questo che lo chiamiamo anche appunto ferreiro, fabbro, o pássaro-campana mentre gli indio tupi lo chiamano wi’rá põga: uccello sonante — al terzo o quarto colpo sull’incudine mia madre disse a mio padre: «o me o lui» e l’uccello fu regalato prontamente al primo passante (potete rendervi conto dell’effetto qui: youtube).

Più tardi avevamo un vero e proprio allevamento nel giardino dietro casa, mio cognato cacciava tangará (Chiroxiphia caudata) sul continente, nella foresta atlantica, e poi li portava a gruppi nella voliera; e anche là, seppur prigionieri nel pollaio, danzavano la loro danza nuziale.

Cresciuto fin da bambino in questo universo di uccelli tenuti in gabbia, osservando i riti quotidiani della distribuzione di becchime, di acqua, di banane, della pulizia le gabbie, addirittura ammirando l’ingegnoso meccanismo di chiusura delle trappole; tempo fa mi sono imbattuto per caso in una gabbietta dimenticata nel fondo del mio magazzino, una di quelle che mio padre non usava più e che chissà come era finita lì. Riparata e ripulita l’ho appesa, vuota, a un chiodo e per alcune settimane è diventata un curioso passatempo: pulendo la sabbia e cambiando acqua e mangime per un uccello immaginario dentro quella gabbia vuota.

Solo con il passare del tempo cominciai a vedere nella gabbia non un normale ornamento della casa ma una vera propria prigione, un limite alla libertà.

È vero che dagli anni sessanta a oggi moltissime cose sono cambiate, alcune anche in meglio: i ragazzini non vanno più a caccia di uccelli (giocano con gli smartphone e forse non è meglio, per loro); ci sono leggi che impediscono anche se tardi uccellagioni come quelle cui si dedicava mio cognato, i suoi amici e molti altri.

Ma ancora oggi esistono migliaia di appassionati di uccelli ornamentali che usano le gabbie, per diletto o per commercio. E c’è il traffico clandestino, in cui gli uccelli conoscono una gabbia solo quando — e se — arrivano vivi nel paese di destinazione, viaggiando nascosti nei più impensabili posti.

Tutto questo parlare di gabbie mi ricorda un’installazione che ho realizzato nel 1989 (e poi anche dopo) intitolata Armadilha (Trappola): al centro c’è una vecchia stia d’allevamento in legno, raccolta tra il materiale di risulta di una casa demolita nella via della mia infanzia, essa è appesa in mezzo a quattro schermi di tela dipinti in azzurro, con tutti i suoi sportelli di fil di ferro lasciati aperti; dentro la gabbia un uovo di legno bianco appoggiato in uno spazio che sarebbe un nido. È un’opera che si dovrebbe intendere aperta, come le porte della gabbia e il passaggio tra le tele azzurre. Una speranza, forse. ★

(traduzione e adattamento di Luca Colferai)

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