Terzo incubo
in quarantena
L’incubo del giorno dopo
Di nuovo! Credevo che fosse finita: invece eccoci ancora qua. Per festeggiare l’inizio della Fase Due: niente aperitivi alcolici! E branzini al forno con le patate e senza cipolle o capperi. La mia mamma non è assolutamente riuscita a trovare le carpe al mercato di Rialto. Né tinche, né lucci, né cavedani, e neanche coregoni: «Co tuti quei spini, signora — le ha detto Vladimir, il suo pescivendolo preferito — e po’ li sa da fango, xe pessi de teraferma!». Abbiamo dovuto accontentarci di un risottino di go e dei branzini al forno; niente vino, neanche un prosecco. Ma niente da fare: nonostante la cena in bianco, gli incubi sono venuti lo stesso. Ed allora leggi qua.
COSMOPOLI — Siamo in Rio Terà dei Brombarioli e le meduse stanno salendo a riva aggrappandosi con i tentacoli alle alghe, ai peoci e alle ostriche fossili. Borbottano «oh issa», mentre succhiano e risucchiano con le loro bocche sdentate per fare presa sulla pietra d’Istria del bordo del canale. Due o tre si sono impigliate sulla sciona d’ormeggio in acciaio inossidabile: e la stanno spezzando. Incredibile.
Glielo dico, a Sebazorzi che è appena tornato dalla Polonia in treno merci, infilato a forza dentro una cassa di mascherine cinesi contraffatte con i bolli dell’Agenzia dei Certificati Tarocchi dei Gemelli Kazimierz (che adesso sono un gemello solo): hanno timbrato con timbro Uè anche Sebagiorgi, sulla fronte. E adesso è a norma anche lui, sebbene tarocca.
Stiamo bevendo un milione di milioni di spritz e c’è ovviamente anche Sebasex che fa la Danza del Calabrache al Merolone, che come al solito è vittima e carnefice. «Varda Seba — gli dico — varda ‘e meduse». Ma è inutile: appena toccano la trachite dei masegni le meduse si sciolgono in una schiuma di prosecco, che vola via nella brezza. E le meduse non ci sono più.
«Mariavergine, che fadiga bever co la mascareta!» La chiamiamo così perché siamo imbecilli e lagunari e ci scherziamo sopra: con uno scherzo che in terraferma non capiranno. Intanto dalle casse pompa disco anni ottanta e anche novanta; calici di vetro scintillano alle faville della palla di specchi, e un ologramma di Berriuait con i munbùt occupa tutto lo spazio della notte.
D’improvviso, con una voce argentina, sull’aria de La Chucaracha, il Merolone intona: «gò a mudanda cussì streta, che i cogioni me se peta, e stranùo cussì tanto, col respiro no ghe a vanto: coronavirus, coronavirus, finalmente o gò ciapà, cussì me fasso, cussì me fasso, i anticorpi da donar…»
E svaniscono tutti gli amici come le meduse, in una schiuma lieve, e mi trovo da solo nel Sotoportego dei Fulminai in mezzo a una torma di sconosciuti sudati. È un parapiglia, un pigiapigia, una gazzarra, un pandemonio: l’aria è satura degli ormoni giovanili di tutti i sessi e dell’evaporazione di citrato di sildenafil e di dichetopiperazina degli anziani impasticcati.
Sul muro muffito del Sotoportego uno Schermo d’Adorazione mostra l’animazione, saranno trenta quaranta secondi, del Lider Massimo che piange lacrime dense che gli colano dai cigli sulla mascherina chirurgica e poi si distillano in raggi d’amore che piovono sull’alacre popolo veneto che si sbraccia per raccoglierle, tra campi di pannocchie e filari di glera.
Intanto al buffet una calca smisurata si accapiglia sfrenatamente tra vassoi di volovan e fingherfud, paninetti alla mortadella, soppressa e salame con l’aglio, birrette prosecchi alla spina e sprizzoni in bicchieri di plastica. I tavoli ondeggiano come le galere alla battaglia di Lepanto e i camerieri, come i turchi, stanno per soccombere sotto l’assalto.
Ci saranno trecentomila persone, e sono tutti o giovani o anziani. Intendo: sotto i trenta o sopra i settanta. E sono tutti senza mascherina. Alcuni a petto nudo, soprattutto gli ultrasettantenni; tanti, tantissimi, tutti, di tutti i sessi, si baciano. Con la lingua e anche senza, in tanti posti che non mi pare neanche umanamente possibile.
Sono l’unico con la mascherina e mi sento tanto mona perché non sono come gli altri: né giovane né anziano. E non posso baciare nessuno perché sono troppo vecchio e neanche mettermi a petto nudo perché sono troppo giovane. E poi tutti gli spritz sono con l’àpero e a me l’àpero non mi piace perché è troppo dolce.
Mi mettono in mano uno scartoccio di frittura molliccia, bagnata di cubalibre, e dentro un anello di calamaro c’è un enorme bovoleto zombi che è sopravvissuto all’immersione nell’olio bollente: è tutto verde e gonfio, i tentacoli degli occhi sono scomparsi ma in compenso gli sono spuntate delle zanne mostruose.
Il bovoleto zombi cerca di mordermi. Squittisce qualcosa: «Molilete tutti blutte melde!» mi pare che dica. Aiuto!
Interviene la mia Amica del Cuore e lo spiaccica a terra con un colpo secco del vertiginosissimo sandalo extralusso extrafetisc che indossa al bellissimo piede sinistro (anche a quello destro: uguale, ma specularmente diverso). Ci sono degli strass, o dei diamanti, sulle strisce di pelle del sandalo, non capisco bene, ma emanano dei raggi benefici che fanno cambiare tutta la scena.
Adesso siamo sulla Riva degl’Innamorati, distesi sui gradini di pietra d’Istria, che sono morbidi come nuvole, e la mia Amica del Cuore ha ancora addosso i sandali extralusso extrafetisc e niente altro e ci guardiamo negli occhi e sul canale l’acqua immobile e limpida riflette tutte le stelle del cielo.
E ci baciamo tantissimo, e sarà lo sciabordio impercettibile delle onde sulla riva, sarà il fruscio di seta della pietra d’Istria morbida come nuvole, o forse sono stati gli effluvi degli ormonid dei giovani o il sentore chimico dei farmaci degli anziani: ma mi sta venendo un’erezione pazzesca.
«Sai — mi dice la mia Amica del Cuore mentre la bacio sull’angolo delle labbra con un struggimento che non provavo più dalla terza media — Sai… dopo questa quarantena…»
«Sì — le dico io, e sto quasi per morire di amore - sì…»
«Dopo questa quarantena…»
«mmmm»
«…non sono più la stessa!»
E infatti, ostrega: è Roberto Bianchin!!!