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Lottatori laureati per l’antica lotta giapponese

Dal gennaio 2006, su trentotto tornei nazionali, i lottatori giapponesi professionisti di sumō non ne hanno vinto neanche uno. Per fermare la supremazia degli stranieri si tenta la via dell’istruzione: lottatori usciti dal college invece di diplomati con la terza media. Ma non sarà per questa volta: anche il Torneo d’Autunno in corso a Tokyo avrà molto probabilmente un vincitore di origini straniere.

TOKYO — Ormai è fatta: il lottatore Harumafuji Kōhei (nato ventotto anni fa a Ulan Bator, capitale della Mongolia, con il nome di Davaanyamyn Byambadorj) è diventato yokozuna, campione nazionale di sumō, alla fine del Grande Torneo d’Autunno a Tokyo che si è svolto come tradizione per due settimane a cavallo dell’equinozio.

Fosse solo per lo sport non ci sarebbe niente da dire, ma il sumō non è solo sport: oltre ad essere uno spettacolo tradizionale — e che fa girare tantissimi soldi — ha anche delle forti connotazioni religiose e nazionali. Inoltre, essendo proprio giapponese, è difficile accettare che dei foresti vincano quasi tutte le competizioni. Anche se se lo meritano.

Ogni anno ci sono sei tornei, tre a Tokyo in gennaio maggio e settembre, uno a Osaka in marzo, a Nagoya in luglio e infine a Fukuoka in novembre. Ogni torneo dura quindici giorni, da domenica a domenica, e ogni giorno dal mattino alla sera gli incontri si susseguono dalle categorie minori a quelle superiori per concludersi alle diciotto con l’incontro tra i grandi campioni, i cosiddetti yokozuna, o almeno della categoria subito inferiore, detti ōzeki. I lottatori hanno un incontro a giorni alterni.

Da quasi vent’anni, ormai, nelle categorie superiori ci sono campioni quasi invincibili che non sono giapponesi. Anche prima della seconda Guerra ci furono un paio di non giapponesi, ma uno era coreano e l’altro nippo-americano, e non riconosciuti come stranieri. Dagli anni Settanta del secolo scorso i foresti a diventare yokozuna o ōzeki sono stati sempre di più. Prima dalle Hawaii (ma il mitico Konishiki era di origine samoana), poi dalle isole del Pacifico, dalla Mongolia che hanno una lotta simile detta bökh, dalla Georgia, dalla Russia, dalla Bulgaria. Ad esempio il bulgaro Kaloyan Stefanov Mahlyanov, già campione europeo di lotta greco-romana, con il nome di Kotoōshū Katsunori è diventato un campione ōzeki nel 2005 e nel 2008 ha vinto un torneo imperiale, diventando il primo europeo a vincere il titolo e spezzando la supremazia mongola nello sport tradizionale giapponese.

L’appartenenza ad una categoria non è solo questione di fisico, forza e peso, e il passaggio da una all’altra è condizionato da un insieme di fattori. Dati i profondi legami con la religione tradizionale Shintō Il raggiungimento della massima categoria degli yokozuna prevede che il lottatore abbia potenza, abilità e hinkaku, cioè dignità e decoro. L’ammissione all’empireo del sumō è condizionata all’esame di una giuria, composta da non lottatori, e uno dei requisiti di fatto che fa scattare la candidatura alla promozione è aver vinto due tornei consecutivi (con delle limitazioni però sul tipo di vittorie). Al massimo livello, da cui non si retrocede e si esce solo per impossibilità di continuare gli incontri, possono esserci uno o più yokozuna allo stesso tempo, o anche nessuno.

Fin dal suo ingresso nello sport un lottatore di sumō conduce una vita strettamente regolata tra allenamenti, regime alimentare, regole di comportamento, perfino di abbigliamento e acconciatura, che deve essere in stile nipponico seicentesco. Riceve un salario mensile che aumenta notevolmente in progressione con la categoria (circa venticinquemila euro) e che viene rinforzato da grossi premi e pingui bonus di vario genere in concomitanza con i tornei, più ovviamente l’indotto pubblicitario che qualsiasi sport si tira dietro.

Molti aspetti del sumō, nato come lotta rituale nei tempi Shinto, ancora oggi sono carichi di tradizione e ritualità, come ad esempio la purificazione con il sale prima di ogni incontro, alcune mosse e movimenti, e sono strettamente collegati allo Shintoismo, che in realtà è proprio un insieme di credenze e riti tradizionali e ancestrali giapponesi di cui il sumō fa parte. I primi tornei tra lottatori di diversi templi o città che si recavano a giostrare nella corte imperiale risalgono a tempi lontani e nel Seicento iniziarono a diffondersi i lottatori professionisti, probabilmente samurai alla ricerca di guadagni. Perfino la Yakuza ha avuto e continua ad avere interessi e entrature nel complesso mondo delle palestre e dei campioni di lotta giapponese.

Forse intimoriti dall’agilità dei campioni mongoli, che prediligono tecniche più aggressive e forse intimidatorie, gli allenatori tentano ora la carta dei lottatori laureati. Sembra che un titolo di studio elevato sia di aiuto nella determinazione al successo. Statistiche alla mano, se solo un lottatore su dieci riesce a diventare sekitori ed entrare nel novero dei campioni, negli ultimi anni su 187 laureati ben 102 sono arrivati al top del professionismo. Inoltre le palestre che hanno sia allenatori che lottatori laureati stravincono e monopolizzano le varie categorie in cui militano.

Ci sono dei problemi però, che gli allenatori non si nascondono: un lottatore laureato tende a riconoscere, a torto o a ragione, i propri limiti molto prima di un lottatore con la scuola dell’obbligo, più tenace e determinato, affamato di successo; inoltre tende a cercare una logica e una motivazione nell’allenamento che riceve, e questo toglie ai maestri quell’aura e quella possibilità di plasmare l’allievo che al contrario possono essere determinanti nel trasformare un giovane con la terza media presa a forza in un campione.

Trent’anni fa, quando ancora i giapponesi vincevano il tornei e i giovani atleti di sumō entravano in palestra a quindici anni, quarantuno dei sessantasei campioni (sekitori) avevano un titolo di studio della scuola obbligatoria, quest’anno solo quindici su settanta. La riconquista di un titolo di yokozuna appare così sempre più una questione non solo variamente nazionalista, ma anche di evoluzione culturale. ★

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