Signore dei dischi

Signore dei dischi, non ti distrarre, pensa un poco anche a me. Fammi vendere qualche copia in più, fammi andare nella classifica dei dischi più venduti, almeno una volta nella vita. Una volta sola. In fondo, cosa ti costa? Signore dei dischi, quasi un’invocazione, una preghiera laica, era il titolo di una canzone. L’aveva scritta, un po’ di anni fa, Roberto Freak Antoni, alias Astro Vitelli, alias Beppe Starnazza (e i Vortici), il geniale cantante degli Skiantos, il primo gruppo italiano di rock demenziale, che nei giorni scorsi ci ha lasciati anzitempo perché non provava più gusto ad essere intelligente in un Paese idiota. (Nota: Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti, era anche il titolo di un suo gustosissimo, appunto, libriccino).

Oggi che Freak Antoni non c’è più (e la sua intelligenza mancherà a gente come noi), non ci sono più neanche i dischi. Quelli di vinile, intendo, salvo in qualche mercatino periferico che ogni tanto (meritoriamente) li risuscita, in ossequio alla moda ricorrente del revival di qualsiasi idiozia purché vintage.

È ormai da un bel po’ che ci sono i cidì (si legge cd, si pronuncia compact disk) al posto dei dischi. Anche se Signore dei cidì non si potrebbe proprio dire, tanto fa orrore. Suoni più puliti, quelli dei cidì, niente da dire, precisi, senza ronzii, senza fruscii, senza salti né intoppi. Ma suoni freddi, troppo freddi, anzi gelidi, da laboratorio, senza colori, senz’anima. Tanto che torna, appunto, la nostalgia del suono sporco ma caldo del caro, vecchio vinile.

E comunque, anche di cidì non se ne vendono praticamente più. O meglio, se ne vendono pochi, pochissimi. Una miseria. Vuoi perché costano troppo (siamo il Paese d’Europa dove i prezzi dei cidì sono scandalosamente più alti), vuoi perché si copiano, si piratano, si scaricano gratis da internet. Così si usa oggidì. Alla faccia dei diritti d’autore che vengono sottratti, appunto, agli autori, nella balorda convinzione giovanilista che sia giusto che la musica che gira intorno sia gratis. Ma senza pensare che è giusto anche che chi fa girare la musica, perché è il suo mestiere, con la sua musica si guadagni da vivere.

Una volta le canzoni che andavano al festival di Sanremo, e non solo quelle che lo vincevano, finivano automaticamente nella classifica dei dischi. Senza nemmeno il bisogno di scomodare il Signore dei dischi. Bastava la tivù. Oggi non succede più nemmeno questo. Neanche il festival della canzone italiana fa più impennare le vendite dei dischi.

Forse perché le canzoni che vanno a Sanremo non sono più buone come quelle di una volta? Forse. Una volta le migliori canzoni italiane andavano al festival di Sanremo — era ovvio — e per questo finivano nella classifica dei dischi più venduti, e succedeva anche che gli italiani andassero avanti a cantarle (magari non tutte) per anni.

Oggi le migliori canzoni italiane non vanno più a Sanremo. Si può anzi dire che ormai da tempo non c’è più buona musica a Sanremo. Che la buona musica non passa più per Sanremo, batte altri lidi, altre rotte, veleggia per altri canali. E si può dire anche che il festival dell’italica canzonetta ormai è tutto tranne che un festival della canzonetta. È un minestrone pasticciato, uno show di quart’ordine, una palestra per incapaci, un comizio da strapaese, insomma un lungo, noioso, inguardabile polpettone dove tutto è più importante delle canzoni. Dove musica e testi sono l’ultima cosa.

C’è chi non lo guarda più, il festival, e chi nonostante tutto non riesce a farne a meno, e tutti gli anni, sera dopo sera, vuoi per abitudine, vuoi perché il profumo dei fiori della riviera inebria come una droga, continua a sedersi davanti alla televisione e a farsi male. Uscendone, per l’ennesima volta, deluso. E commentando, amaro, che al festival, purtroppo, non ci sono più le belle canzoni italiane.

Stando però bene attento ad evitare, per non farsi male due volte, la domanda più perfida: ma ci sono ancora, fuori dal festival, le belle canzoni italiane? ★

Roberto Freak Antoni, alias Beppe Starnazza, già Astro…

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