Sbragassài

Sbragassài. Non voleva dire solo sbracati, come si potrebbe asserire oggidì. Venivano chiamate così, nell’antica lingua veneziana, le persone poco eleganti nel vestire, ma anche trasandate, volgari. Impresentabili, sostanzialmente. Proprio com’è la maggior parte del mondo di oggi. E non solo dei turisti, sbragassài di ogni risma, sesso, età e nazionalità, che intasano città d’arte d’ogni Paese e anche borghi e città che tutto sono tranne che d’arte.

Se il mondo intero si è sbragassà (fatte le debite eccezioni, s’intende) qualcosa dev’essere successo. A partire dalla prima grande rivoluzione dei tempi moderni, quella del Sessantotto (1968), quando tutto cominciò a mutare anche nel vestire. Basta con gli abiti paludati. Con le divise da ufficio, tutte uguali. Basta con giacca e cravatta. Basta con quei completi grigi. Con quei doppiopetti blu. Con quelle camicie ben stirate, sempre e solo bianche. Con quei fastidiosissimi gemelli da polso. Largo ai blu jeans, ai bermuda, alle camicie a fiori, ai mocassini senza calze, alle minigonne, alle tuniche, alle sahariane, agli occhiali scuri anche di notte.

Anche questa, a suo modo, fu una rivolta. Contro il potere. Contro l’establishment. Contro le abitudini conservatrici. Contro le convenzioni. Contro il perbenismo. Contro il moralismo. Fu la vittoria della libertà. Del progresso. Del potersi vestire come si vuole in qualunque occasione. Del non avere più vincoli né obblighi. Del poter essere finalmente, sempre, sé stessi. Liberi.

Bene, dunque. Anzi, benissimo. Nessuno avrebbe mai pensato, in realtà, che la libertà finalmente ottenuta nel vestire si sarebbe tramutata, nel volgere di pochi decenni, nell’obbligo alla trasandatezza. Oggi il mondo veste, quasi tutto, quasi dappertutto, malissimo. Un’umanità liberata dai canoni ha lasciato il posto a un’umanità sbragassada sempre, a tutte le ore, in tutti i posti, anche i più prestigiosi, del mondo. Un’umanità non solo poco elegante, che sarebbe ancora il meno. Ma un’umanità perennemente penosamente trasandata, volgare, impresentabile.

Che il fenomeno sia ormai irreversibile, lo si può notare anche nella città che diede origine alla parola sbragassài, quell’un tempo elegante Venezia (ora anche lei non più, s’intende), dove ha ammainato bandiera, in fatto di buoni costumi e buona educazione, persino uno dei suoi locali più rinomati, che aveva fatto proprio dell’eleganza la sua bandiera: il celebre Harry’s Bar.

A calar le braghe, come dicono a Venezia, lo storico patron, Arrigo Cipriani, che non senza un pizzico di vergogna ha infranto quel tabù che aveva orgogliosamente resistito per decenni: il divieto di entrare agli sbragassài in braghette corte. Anche a loro, adesso, è consentito l’ingresso a quello storico tempio. Persino Hemingway, che non era certo il massimo dell’eleganza, inorridirebbe.

Non bastasse, Cipriani ha fatto anche di peggio: ha confinato gli sbragassài in braghette corte al piano superiore del locale. Creando così un ghetto sbracato infrequentabile. A testimonianza della sua vergogna, li ha così nascosti alla vista dei meno sbragassài, sperando che non se ne accorgano, e che non brontolino, magari sui giornali stranieri, contro l’ennesimo episodio di degrado veneziano.

Il vecchio patron, che è di lingua svelta, ha già pronta la scusa: si è visto costretto, perché se non faceva così, perdeva buona parte della sua clientela. Che tristezza. Sia per la clientela che per la scusa.

L'archetipo prototipo Homer Jay Simpson (autore Matt…

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