Papaver

Sono coricato in un letto ad una piazza e mezzo. Duro ed ergonomico materasso. Un lenzuolo bianco, freddo ed inamidato: rassettato disopra. Steso dai piedi alla testata e tirato per eliminare grinze. Rimboccato con pazienza fino in fondo; spinto nelle intercapedini laterali.

Prima ho disfatto l’orlo per andare sotto alle coperte. Questo s’è impigliato al gancetto della rete. E ha fatto «tin» quando con forza improvvida l’ho disincagliato dall’intralcio. L’ho toccato. Era gelido. E m’ha lasciato una depressione circolare sul polpastrello durante le previe manovre di «liberazione». (Se ne va il segno. Già! Si è sollevata la pelle).

Sinestesia: carminio liscio della coltre.

Sul comodino un bicchiere semivuoto e un tocco di pane con poca carne senapata. Il vetro riluce colpito dalle stizze di stelle osservanti (allschauende Sterne) che, fantasiosamente, con mano aperta a costrizione respingono il mattino.

Il sonno mi appesantisce gli occhi e m’infiacchisce il corpo. Le mani sono rosse.

Spengo la lucetta.

Vedo quello che ho visto con diversa gradazione d’impegno per essere rielaborato. Scalettate cifre su di uno scontrino. Viali. Attraversamenti pedonali. Semafori. Un caffè. Un divano a barchetta con braccioli a ricciolo. Una ragazza magrolina dal seno piatto: in mia compagnia.

Mi dice che è «contenta».

Contraggo le palpebre. Mi si raggrinzisce il viso. La congiuntiva è irritata!

Sono àuguri di giorni felici (cantati non da un Trimalcione): i suoi occhi muliebri e marroni dal dotto lacrimale che trae inizio dove il sopracciglio principia. (Ansio che si prende tempo). Il sidecut mi punge le labbra calde, mentre lo lecco… Il suo sesso un po’ irsuto buca il mio mento che esplora. Che risale. Non si ferma; purtuttavia.

Le domando — con calma — se punta al sole o alle stelle.

Vuole le stelle. Sicura.

«Guarda che le puoi vedere anche con una botta in testa,» derisivo, io.

(Sorride col rigo di matita sfumato sotto allo sguardo; pare carboncino… La bocca ha rughette: ora che è stata rappaciata).

Mi fa delle smorfie. Corruga la fronte. Ho quasi davanti la testa di Porsenna del Sansovino. Le sue parole sono aria tiepida nel mio cuore leggero. Le viscere vogliono essere punzecchiate da stimoli licenziosi. Si racconta usando naturalezza: qualcosa non afferro.

«Potrei parlarti per ore e dire cose senza senso; e poi non ricordarle. Ma non sono pazza. Mi succede spesso».

«Non mi dà fastidio. M’è capitato di vedere una vecchia che, dopo aver pulito gli interni della sua carretta, ne spolverava le ruote».

«Ma io non sono vecchia!»

«Buon per te».

Getto altri ciocchi nel caminetto. Continuo a ricordare.

«O Musa. O Valle di Tempe. Allarga le tue cosce. Ché io possa celebrare sacre libagioni».

«Più di così non posso. Se vuoi possiamo farlo per terra».

«Mi piace il tuo tono temperato,» satiro.

«Tu sei la mia isola di tranquillità, ma non scordarti che mi sono alzata alle sei del mattino».

«Come i braccianti del Sud, comare Ilaria».

(Con voce debole ed impostata):

«Stretta è la porta che mena alla vita».

«Gide?»

(Paciosa/laconica): «Sì».

«Comperai il libro in un mercatino. Dal robivecchi. Ad Este».

«Bene. Ma non fermarti».

«Dio ti conservi mille anni: tanto sei speciale».

(Rabbuiata): «Dite tutti così».

(Tra me e me): “Spero che non se lo ricordi”.

È fragile. Ho paura di ferirla. Potrebbe rompersi in mille vetri se di solido fosse fatta. Sto attento. Controllo le azioni… Mi rivesto. I calzoni aderenti m’hanno portato via dei peli dalle cosce dove ora uno sfogo si fa sentire. Guardo per terra, il pavimento. La pareidolia m’illude.

Mi getto sul materasso. Inanimato. Cado. Mi stabilizzo battendo la testa contro la sua.

Siamo di ceramica, di metallo, di non so.

I tubi di scolo dei terrazzi estromettono acqua. Qualcuno prende l’ascensore. Un gatto elemosina degli avanzi.

Chiudo gli occhi. ★

Gemone di Velieronero d'Oltremare, (foto di Valentina).

Papaver