Monumento
al mingitore

Facciamo merendina insieme divagando sul fatto che, a ben vedere, spazi ce ne sono tanti da riempire con un monumento: ogni piazzetta, via, rione o quartiere reclamerebbe giustamente — se non ci ha già provveduto — il suo. Senza aspettare un’altra guerra o una deprecabile ecatombe con conseguente stillicidio di vittime (tocchiamoci, orsù), o riesumare qualche personaggio di fama secolare dimenticato dalla cittadinanza tutta, con tanto di scuse ufficiali, per non far la figura di quelli di Sansepolcro che al loro Luca Pacioli — inventore tra l’altro della partita doppia — nel 1878 chiusero il lapidario epitaffio con la frase «vergognando 370 anni di oblio al gran concittadino poneva, Firmato: la società operaia».

No, basta monumenti tristi. Mi costa assai, ma mi faccio volentieri una piccola violenza nel dir così: innamorato da sempre della magnificenza e delle ascensioni gotiche, impressionato e convinto ammiratore delle solide strutture rinascimentali, spesse volte coinvolto e imbrigliato dall’ardimento di certe invenzioni barocche, epidermicamente attratto dalle auliche e seducenti creazioni romantiche, infatuato da nostalgie veristico-preraffaellite, struggentemente conquistato dal rincorrersi dei tratteggi jugendstyle, sconvolto e posseduto dalle pesanti geometrie littorie-decò, imbocco con un guizzo vie traverse e secondarie, concettualmente parlando. Ma nemmeno voglio portare il discorso troppo sul fantasioso, no: monumenti a Pinocchio ne han già fatti, a quello che sta in una piazza di Milano hanno addirittura staccato diverse volte il naso. Tralasciando quegli obbrobri che la mia vista deve sopportare (uno su tutti, quel mondo bucato stile gruviera con appiccicati monconi di mani, fuso in bronzo, incastonato su un grosso masso grezzo che grida vendetta al cospetto della municipalità intera, piantato su una vecchia aiuola al centro d’una piazzetta di un borgo che conosco io) auspicherei una decisa sterzata di gusto, stile e, sopratutto, intenzione.

Oltre ai già menzionati monumenti alle categorie fondamentali per gran parte del reticolo di relazioni dell’attuale società, cioè rappresentanti di commercio (una valigetta ventiquattr’ore alta due metri tenuta su da una cariatide china in giacca e cravatta, sarcastica riedizione a mo’ di Atlante) e segretarie (un grande orologio rotondo di pietra chiara con due statuine femminili in bronzo abbronzato, in completino assai formale a fare da lancette, le ore una un po’ più rotondetta — del tipo poca apparenza ma gran professionalità — e l’altra, i minuti, esile, col fisico da mannequin — del tipo bella gnocca da portarsi dietro nelle convenscion all’estero), ci si dovrebbe ricordare anche dei commercialisti, non vi pare? Non sarebbe neppure di difficoltosa ideazione, basterebbe riesumare il simbolo più noto relativo al periodo del terrore rivoluzionario francese. E per gli avvocati? Ancor più semplice: una tagliola da lupi larga venti metri, bella lucida, col meccanismo pronto a scattare al posarsi di una parola.

Poco comico? Certo, ma che ci potrà mai essere di comico in un monumento a codeste categoria di umani? Cambiamo tiro, svelti.
Si potrebbe fare un monumento, di natura trasversale, a quella categoria, per lo più maschile, denominata «minzionatori coatti», quella che nelle barzellette giapponesi chiamano con un imperfetto italianismo urinasumuri: per dirla più semplicemente i pisciatori di frodo. Categoria alla quale apparteniamo un po’ tutti (pure io, che dovendo bere — causa idrope congenita — tre litri di acqua al giorno, per attraversare Venezia a piedi mi ci vogliono minimo cinque pisciate), anche le donne, seppur con diverse e problematiche difficoltà tecnico-logistiche. Assai scontata la proposta: una figura maschile qualsiasi eretta e leggermente incurvata in avanti, rivolta contro una porzione di muro o manufatto o siepe o staccionata altrettanto qualsiasi, con la testa rivolta all’indietro come a fare il palo di se medesimo, e con le mani in direzione della patta. Monumento peraltro di problematica osservazione, in quanto lo sguardo dell’ipotetico turista o passante che ne compenetrasse il significato sarebbe oltremodo attratto dallo sguardo innaturale della figura scolpita o fusa nell’atto di provvedere all’impellente necessità, con derivante effetto teatrale indiretto, suggerendo alla statua una silente risposta indirizzata al turista inopportunamente guardone suo malgrado «mi scappava da pisciare, c’era manco un bar aperto, che cazzo guardi, a te non succede mai, ti porti sempre il cesso appresso?»

Vabbè, continuando in questa direzione ogni categoria potrebbe reclamare il suo, di monumento. Imprenditori, puttane, politici, studenti, operatori ecologici, messi comunali, duplicatori di chiavi, guardie giurate, pescatori di rane, maestre d’asilo, pescivendoli, parrucchiere, giornalisti… Cavoli, un monumento ai giornalisti: quasi quasi faccio un salto al bar e chiedo al primo che trovo a leggere la gazzetta come se lo immaginerebbe, un monumento al cacciapalle, allo scoopatore professionista, al mezzobusto o alla bellona tettona labbruta (due b e una t, ho scritto giusto) che dai pulpiti dei telegiornali nazipopolari ce le racconta e ce le fa vedere che paiono accadute realmente, con tanto di inviati tarantolati sul posto. Tanto per non scannarci troppo a pensarci, si potrebbe prendere spunto dall’Euratom di Bruxelles. Togliendo però i tubi e lasciando le palle.

Monumento al mingitore