Meno 10217

dal diario del Signor …

La prima volta che imparai a morire, pioveva. Era una di quelle giornate invernali che non iniziava mai: troppo vicina al solstizio, troppo nuvoloso il cielo, troppo sporco il terreno dei resti di pioggia notturni per invogliare chiunque, che non fosse costretto dagli impegni, a camminare. La stanza in cui ho ricevuto la notizia la prima volta era l’ufficio di un medico che non conoscevo.

Mi chiamava per cognome anteponendo un «Signor» così asettico e formale che inizialmente feci fatica a comprendere quello che mi stava comunicando. Lo ripeté un’altra volta, immaginando un mio certo smarrimento alla notizia. Io avevo dimenticato il suo cognome, ero costretto a chiamarlo «Dottore», in uno spettacolo di falsa cordialità nel quale percepivo ogni singolo nervo teso nel mio interlocutore quasi potessi, da un istante per un altro, aggredirlo selvaggiamente. Forse era questo un rituale istintivo che capitava ad ogni paziente?

Questa era la mia seconda diagnosi in poco più di un mese. La prima era arrivata come un’onda violenta di tsunami a demolire delle certezze. Si era rivelata sbagliata, assurda, crudele, ma ciò non di meno aveva sviluppato una serie di eventi che mi portavano ad essere ora in quello studio dalle pareti chiare, la scrivania acquisita tramite un appalto, la figura davanti a me che indossava un camice residuato di un’epoca lontana della scienza medica. C’erano due sedie, avevo deciso di prendere quella di destra: aveva una visuale più bella del parco interno dell’ospedale. Indossavo abiti comuni, credo. In ogni caso non avevo un aspetto stravagante, non possedevo alcun tratto distintivo attraverso il quale, questo medico, avrebbe potuto ricordare la mia presenza a distanza di giorni, mesi, anni.

Ero il Signor … delle ore nove, cui bisognava comunicare che gli era stato diagnosticato, senza alcun ragionevole dubbio, la leucemia linfatica cronica di secondo statio in tre punti diversi a seguito dell’assorbimento di una eccessiva quantità di radiazioni. I danni sono di tipo linfoblastico, colpiscono i globuli bianchi, ma gli esami emocromocitometrici rivelano anche una carenza critica di globuli rossi e piastrine. In breve, il mio sangue aveva smesso di funzionare. Domandai al Dottore quanto tempo restasse, quanti anni. Lui fece una pausa, una lunga serie di punti di sospensione in attesa che capissi. Mesi, mesi di vita. Certo, ci sono le terapie, ci sono le probabilità di sopravvivere, ci sono i miracoli. Ma nella vita di sei miliardi di persone questi miracoli sono così distanti l’uno dall’altro, così diluiti che farci affidamento è un atto di fede supremo.

Sin da ragazzino sono sfuggito alla noia, quando non avevo davvero alcuna cosa con la quale intrattenermi, eseguendo semplici equazioni matematiche nella mia testa. La difficoltà di portare avanti un carico sempre più pesanti di numeri in sequenza, quasi una rete che dragando il fondale si aggrappasse ad ogni rilievo, mi ha permesso di far passare tante volte il tempo. Immaginavo sempre di doverlo utilizzare per una prigionia, una sentenza. In quel momento invece il calcolo delle ore che mi restavano arrivò spontaneo, semplice: diecimila ottocento ore in quindici mesi, la stima più ottimistica senza tenere conto delle terapie. Di queste ore, almeno tremila seicento a dormire. Mi restavano settemila duecento ore di vita. ★

Quando avrò terminato questo testo il 10 Marzo alle ore ventitré, sono già passate cinquecento ottantatré ore. Mi restano diecimila duecento diciassette ore.

Meno 10217