L’Olocausto Perpetuo
Brani e riflessioni dagli scritti di Paolo Ricci
Durante una navigazione notturna su internet, quasi cinque anni fa mi imbattei in un sito oscuro. La saggezza di Chirone, si intitolava. Mi inoltrai con diffidenza, ma ne fui immediatamente risucchiato. E scorrendo le pagine, fitte di lettere, scritti, commenti, rimandi, citazioni, poesie, mi accorsi di un istantaneo, crescente sentimento di empatia e condivisione. Si parlava di animali, ed in particolare della sofferenza a loro procurata vergognosamente dall’Uomo, ma se ne parlava in un modo diverso dal solito.
VENEZIA — Paolo Ricci sviluppa il suo argomentare in un modo dotto, colto, articolato in digressioni che spaziavano dalla filosofia alla scienza, dalla storia alla teologia, dalla materia allo spirito. Qualche tempo dopo ebbi la fortuna di incontrare e conoscere l’autore di quel sito, Paolo Ricci, e di diventarne amico. La quale cosa mi procura quotidiano senso di orgoglio e vanto. Quelli che si riportano riguardano una serie di suoi scritti, riuniti in una raccolta chiamata «L’Olocausto Perpetuo», introdotta dalla acuta prefazione di Massimo Tettamanti, grande protagonista della scena italiana nella lotta contro la sofferenza e lo sterminio animale.
Prefazione a L’Olocausto Perpetuo (di Massimo Tettamanti)
Viviamo in una società basata sul massacro.
Alimentazione, abbigliamento, pseudo ricerca scientifica, divertimento circense, hobby venatorio, corse di cani e cavalli per sport e scommesse, ecc. e questo solo per citare alcuni maltrattamenti legali.
Nascere con una forte empatia per il dolore del non umano è, in questa come in altre epoche, una maledizione.
Paolo Ricci in questo libro scrive: «La battaglia è momentaneamente persa ma la guerra è lunga, tremenda e continua».
E credo abbia ragione.
Ho conosciuto Paolo anni fa quando, da italiano residente in Inghilterra, con la conoscenza della realtà nostrana ma una visione internazionale, proponeva nuove strategie a difesa degli animali che a tanti parevano folli ma che, in realtà, hanno poi portato a importanti risultati concreti nonché a un modo diverso di impostare progetti animalisti.
Gli scritti di Paolo sono intelligenti, colti, arricchenti, provocatori, lasciano il segno così come ci si può aspettare da chi dirige una newsletter dal nome del toro Bailador : «Bailador, Regalòn, Jaquetòn, eroici animali che non accettano di essere massacrati e che si difendono selvaggiamente contro la furia omicida antropocentrica» e un ricchissimo sito multidisciplinare di approfondimento intellettuale ed estetico come La Saggezza di Chirone.
L’Olocauto Perpetuo non fa eccezione, anzi, è una raccolta di aforismi che spiegano quanto «la furia omicida antropocentrica» sia devastante ma anche che, se i cacciatori, che sono lo zero virgola qualcosa percento e hanno contro il 92% della popolazione italiana, riescono a ottenere quasi tutto quello che vogliono: la colpa è anche nostra.
Di un movimento per gli animali, al quale appartengo, da sempre diviso in fazioni, pieno di personalismi o di anime belle ma prive di strategia, un movimento dove, visto che gli animali non parlano, chiunque può diventare il loro portavoce senza paura di essere smentito dai diretti interessati.
Nei libri di Paolo si capisce la sua linea, che condivido appieno, e che si può sintetizzare in «con ogni mezzo necessario» e si va dal magnifico capitano Paul Watson che affonda le baleniere, fino ad analisi storico-religiose che, anche se non sono immediatamente trasformabili in progetti concreti, tanto ci insegnano sul rapporto uomo/animale.
E in questo «con ogni mezzo necessario» si evidenzia quanto in Italia sia assente un concetto che accompagna ogni lotta e cambiamento sociale: il rapporto con la politica. Forse perché la politica italiana è peggio di altre, forse perché il partito dei verdi ha profondamente deluso le aspettative, in Italia pensare di interagire con la politica è spesso un concetto repulsivo, che schifa, che sbilancia.
Ogni movimento vincente ha però avuto, e spesso ancora ha, un riferimento, una lobby, un peso politico, in grado di influenzare decisioni fondamentali per la società. I cacciatori, per citare di nuovo l’esempio di prima, lo zero virgola qualcosa percento della popolazione, hanno dalla loro almeno il 36% della politica e i soldi da soli non spiegano questo loro successo.
Il 36% delle famiglie italiane che convive con un animale, e tra queste i vegetariani/vegan/zoofili/attivisti ecc. non ha, al momento, nessun riferimento politico nel parlamento italiano che sia accettabile e minimamente decente (e quasi nessuno a livello europarlamentare).
Paolo scrive, senza troppi giri di parole: «O cambiamo o siamo fottuti».
L’Olocausto Perpetuo ci fa riflettere su chi siamo e da dove veniamo.
Ma sta a noi, in questi anni che stanno segnando cambiamenti epocali, che stanno mostrando la paura nei nostri avversari, che stanno mostrando quali progetti funzionano e quali sono da superare, che dobbiamo decidere dove vogliamo andare.
È tempo di dare una svolta nel rapporto con la politica in modo che possiamo diventare quello che i nostri avversari temono: un movimento compatto, organizzato, con obiettivi nel breve-medio termine che siano importanti e realistici, che faccia della dedizione uno stile di vita e della salvezza di ogni animale una missione.
Come farlo è da decidersi, ma non è più possibile rimandare.
«O cambiamo o siamo fottuti».
Da L’Olocausto Perpetuo di Paolo Ricci
1 – La logica religiosa del sangue
Quando la loro missione finisce sulla terra, i Pandava con la moglie comune Draupadi cominciano ad incamminarsi verso il cielo. Procedono esausti, ma trovano ostacoli a causa dei peccati commessi. Quando i fratelli si accorgono che anche una grand’anima come Draupadi non ce la fa a trovare il sentiero del cielo, la meraviglia è immensa. I cinque fratelli sono sposati con Draupadi che è segretamente innamorata d’Arjuna e lo preferisce agli altri, ma non praticando l’equità nell’amore Draupadi si è macchiata di una colpa. La via è ardua e tortuosa e gli dei non sono mai contenti. Alla fine solo uno dei cinque fratelli procede, senza grandi difficoltà, verso il paradiso.
Yudhisthrita, va verso le volte celesti preceduto da un piccolo cane. È stato il suo amico per tanti anni e corre scodinzolando tra i sentieri nuvolosi. Quando arriva alle porte del paradiso, i guardiani lo fermano. «Ma che porti nel cielo i cagnacci rognosi? – gli chiedono – Pussa via bestiaccia!» Yudhisthrita è stanco per la gran guerra, i massacri e l’eterno pellegrinare è come curvato su se stesso. Ha le lacrime agli occhi e non ce la fa più. È disfatto e i guardiani gli si sono parati davanti bloccando l’ingresso al cane.
«Perché questo fedelissimo cane non può entrare con me ?» Chiede.
«Perché i cani non entrano in cielo…» rispondono i guardiani.
«Allora sai che vi dico? Tenetevelo il vostro fottuto paradiso perché io senza il cane non entro….».
Si mette il fagotto sulle spalle, scuote la polvere dai sandali, e ritorna sui suoi passi.
Ma alla fine i guardiani cedono per l’intervento degli dei e il bastardello procede scodinzolando verso la luce infinita.
***
Gli Aztechi sacrificavano esseri umani. Il pantheon degli aztechi ospita presenze inquietanti. Anzi profondamente angoscianti. Gli Dei li creano i popoli secondo il loro sentire. Secondo il loro interiore rimuginare. E il divino era immaginato dagli Aztechi come qualcosa di tremendo, di spietato.
Al paragone il Jahvè biblico è un agnellino. E il Dio cristiano protestante un vecchio burbero e charmant.
Gli dei Aztechi sembrano fuoriuscire dai massacri spietati delle foreste ove gli animali si divorano tra loro.
Sono le espressioni dell’angoscia divorante del mondo. Nel 1486 gli Aztechi misero insieme attraverso la guerra ventimila prigionieri. Le vittime attesero con grande pazienza il loro momento. I loro cuori estratti ancora pulsanti venivano appoggiati nel grembo di Chac-Mool, e questa orrenda fine, delle volte, toccò ad alcuni spagnoli.
Quando gli Spagnoli, i conquistadores, arrivarono videro templi stracolmi di teschi. Andrés de Tapia nel suo Relaciòn sobre la Conquista de Mexico contò i crani di uno tzompantli e parlò di trentaseimila teste di sacrificati. Diego Duran avanzò la cifra di ottantamila teschi tutti infilzati attraverso le tempie come un macabro, infernale pallottoliere. Diaz del Castillo parla di innumerevoli teschi. Tanti da non poter essere contati. Ora immaginate un sacerdote o un parente di un sacerdote azteco che cerca di spiegare a un giovane dubbioso la logica sanguinaria della religione; un po’ come se un rubicondo parroco cercasse di spiegare a un’educanda il mistero della transustanziazione.
Cerchiamo di immaginare la spiegazione: il giovane Candide Azteco chiede: «ma sono necessari tutti questi sacrifici?»
Il sacerdote o chi per lui risponde: «Allora non hai capito… senza sangue si ferma la macchina dei mondi. Tutto si blocca senza il sangue dei sacrificati. Sono gli dei che lo richiedono.»
«Ma non sono eccessivi questi sacrifici?» Insiste il giovane Candide Azteco.
«Ma no… lo sai cosa è accaduto… no? Quattro mondi e quattro soli si sono inabissati nel nulla, la mancanza di cuori strappati ha prodotto immensi cataclismi. È la nostra missione cosmica a far sì che gli dei siano sazi. Che siano soddisfatti. Il nostro massacrare ci salva dall’estinzione.»
Senza sangue segue il caos. La fine dei mondi. Senza il tlaxcaltiliztitli il sacrificio del sangue e del cuore la furia degli Dei non si placa. Come Jahvè richiedeva il sacrificio di animali nel tempio così gli dei Aztechi richiedevano il sangue umano.
E la logica religiosa e davanti al silenzio degli dei o di Dio ti arrabatti. Trovi soluzioni e quella era una. Mel Gibson che è un fanatico cristiano che ama il sangue — a tal punto che macella con le proprie mani i vitelli nella sua fattoria — in due film ci ha mostrato questa predilezione del sangue tanto amata dagli Dei. Prima, in The Passion, ha massacrato a suon di frustate Gesù di Nazareth. Lo ha fatto nero. Poi in Apocalypto ha dato un’idea dell’orrore che accadeva nel mondo mesoamericano. Un polpettone sarà stato, ma l’idea l’ha data di sicuro.
Tutto il nostro rapporto divino era ed è tessuto con il sangue. Ah… voi dite ma non si sacrificano più animali! Dite: i cristiani misero fine ai sacrifici 391 d.C con l’imperatore Teodosio. È vero, i sacrifici furono occultati dal cristianesimo nascente e dalla modernità. Ma da allora i sacrifici si sono inabissati nei macelli. Abbiamo occultato gli altari di Jahvè e degli Dei per trasferirli nel mattatoio. Il sangue fa impressione e noi siamo esseri civilizzati.
Ci pensino altri a massacrare. Però non negateci le fettine panate… per l’amore di Dio!
***
Da L’Assassino Cherubico
Ieri ho riletto un libro intitolato: Yossl Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz.
Un capolavoro di pochissime pagine. Nel piccolo manoscritto l’io narrante, l’ultimo ebreo combattente nel ghetto di Varsavia, lascia un messaggio finale in una bottiglia, attende la morte e riflette dopo lo sterminio dell’intera famiglia da parte dei nazisti.
È solo, tutti gli altri combattenti sono caduti. Yossl dice: «Qualcosa di strano è accaduto in noi: tutti i nostri concetti e i nostri sentimenti sono cambiati. La morte rapida istantanea ci appare come una salvezza, una liberazione, la rottura delle catene. Le belve della foresta mi sembrano così amabili e care che è per me un profondo dolore sentir paragonare a belve gli scellerati che dominano l’Europa… non è vero che Hitler ha in sé qualcosa di bestiale, è un tipico figlio dell’umanità moderna, ne sono profondamente convinto. È stata l’intera umanità a generarlo e a crescerlo, ed egli è il più sincero interprete dei suoi desideri.»
«In un bosco dove mi ero nascosto, incontrai un cane malato, famelico, forse anche impazzito, con la coda tra le gambe. Entrambi sentimmo subito la comunanza, se pure non la somiglianza della nostra condizione, infatti la condizione dei cani è certo di gran lunga superiore della nostra.»
«Si appoggiò a me affondò la testa nel mio grembo e mi leccò le mani. Non so se ho mai pianto come in quella notte: mi gettai al suo collo e scoppiai in singhiozzi come un bambino.»
«Quando affermo che allora invidiavo le bestie, non c’è da stupirsi, ma ciò che provai in quel momento era più che invidia vergogna. Mi vergognavo davanti al mio cane di non essere un cane, ma un uomo…» ★