Libertà e dintorni
al tempo del virus

Opinioni d’autore

Sull’emergenza coronavirus e le sue conseguenze, soprattutto in tema di libertà individuali, abbiamo chiesto un’opinione a un noto legale, l’avvocato Francesco Mocellin, da tempo in prima fila nella battaglia per i diritti civili. La sua è una riflessione piuttosto critica nei confronti delle disposizioni «pesantemente e progressivamente sempre più restrittive» emanate dal governo italiano per il contenimento dell’epidemia. Misure che «ci lasciano perplessi» sostiene il legale. «Il perdurare della situazione attuale di castrazione di qualsiasi relazione sociale e di annullamento dell’attività economica non appare sostenibile nel medio o ancor meno nel lungo termine, piaccia o no ai fautori del principio: la salute prima di tutto».

Diciamo subito che le disposizioni pesantemente e progressivamente sempre più restrittive emanate dal Governo italiano – e, in parte anche da numerosi altri governi seppure con modalità differenziate – per il contenimento dell’epidemia in atto ci lasciano perplessi.

Innanzitutto, sotto il profilo pratico, dopo oltre dieci giorni di blindatura della società, non sembra che tali provvedimenti stiano sortendo effetti significativi o quantomeno sufficientemente rapidi. Tenendo conto che la media del tempo di incubazione è di 5,2 giorni qualche risultato maggiormente tangibile si sarebbe dovuto vedere secondo quanto ci era stato prospettato. Non si replichi ripetendo il mantra “in giro c’è ancora troppa gente” perché si tratta di situazioni del tutto residuali o dettate dalle diverse necessità: in giro non c’è praticamente nessuno e si vedono girare con aria circospetta sempre più personaggi mascherati e guantati anche se non hanno nessun essere vivente nel raggio di trecento metri o se si trovano soli in auto o sul terrazzo.

L’ulteriore inasprimento delle misure di isolamento sociale (e di compressione della libertà individuale) messe in atto con l’ennesimo decreto ministeriale – aggravatre dalle ordinanze di alcuni Governatori regionali – non fanno che aumentare le perplessità e dicono molto del corto circuito in atto nella catena di comando in presenza dell’emergenza oltre che far riflettere su alcuni nefasti aspetti del federalismo. Mai come in questi momenti le danze dovrebbero essere condotte da una voce sola.

Il punto è che le restrizioni alla maniera della Cina stanno funzionando, per l’appunto, in Cina: da lì è partito il virus e sono stati individuati praticamente nell’immediatezza sia la fonte che il focolaio. Quindi, il contenimento sociale estremo dapprima nella città di Wuhan e poi nella provincia dell’Hebei ha avuto una ragion d’essere razionale ed un risultato concreto.

Diversamente, in Europa e nel resto del mondo è verosimile che i focolai siano molteplici, tutti importati da viaggiatori e la blindatura globale non sappiamo se potrà impedire in modo sostanziale la diffusione del virus: questo è arrivato, si è diffuso e ad un certo punto verosimilmente si indebolirà per poi altrettanto verosimilmente ritornare attivo verso fine anno. Quindi dovremo tenercelo ed imparare a conviverci fino all’arrivo del vaccino senza lasciare il mondo in galera perché non possiamo permettercelo. Qualche dubbio ci resta sulle modalità di conteggio dei contagiati e dei morti: da noi sembra si faccia a gara per esibire le bare sui media e sui social tanto per tenere alto il morale della truppa e nessuno ci dice se i defunti fossero gravati da altre serie patologie oltre che dal virus.

Detto questo, bisogna prendere atto che il perdurare della situazione attuale di castrazione di qualsiasi relazione sociale e di annullamento dell’attività economica non appare sostenibile nel medio o ancor meno nel lungo termine, piaccia o no ai fautori del principio la “salute prima di tutto”. Tutti siamo d’accordo che quando c’è la salute c’è tutto salvo poi scoprire che non è esattamente così. Infatti, è stato chiaro a tutti sin dall’inizio che più a lungo si paralizza l’apparato produttivo e quello anche dei servizi c.d. non essenziali, tanto più tragica sarà la crisi economica da cui risollevarsi. Quindi, combattere il virus col blocco dell’attività economica significa né più né meno che adottare una chemioterapia talmente aggressiva che rischia di restituirci un malato tecnicamente guarito ma pronto a crepare per la condizione di debilitazione assoluta in cui versa.

Ma le prospettive sono ancora più funeree pensando agli esiti del “distanziamento sociale” forzato in cui siamo costretti da giorni, bombardati da comunicati e news contraddittori e depressivi. Innanzitutto va considerato l’azzeramento delle libertà individuali imposte a mezzo di decreti ministeriali in successione. Si tratta di provvedimenti senza precedenti, ricordiamocelo sempre, e crediamo sia assolutamente necessario che le disposizioni ivi contenute siano circoscritte nel tempo. Attualmente lo sono solo in teoria perché in pratica ci viene fatto capire che dipenderà dalla bonomia del virus di volersi affievolire e diventare più “buono” (per dirla col virologo della TV italiana, ormai assurto ad un simil-Cracco dell’epidemia) se questi decreti non verranno reiterati a ripetizione o addirittura inaspriti.

Ricordiamoci che ogni giorno di libertà annullata è un giorno di troppo dal punto di vista del diritto — anche se l’augusto Prof. Zagrebelski ha detto che si può fare — e dovrà davvero valerne la pena, cosa di cui oggi non siamo sicuri fino in fondo. Ma se dovesse diventare chiaro che la strategia costrittiva e liberticida del Governo è stata fallace, se il virus dovesse spegnersi più o meno nello stesso tempo sia da noi che in altre parti del mondo dove sono stati adottati provvedimenti meno draconiani, allora chi ha deciso di tenerci chiusi in casa – seppure con le migliori intenzioni – qualche spiegazione dovrà fornirla.

Lo status attuale di isolamento rischia di restituirci una società ancora più deteriorata nel campo dei rapporti personali e terrorizzata anche dell’aria che respira: a crisi superata – sperando che accada, bien sur – ci si potrebbe ritrovare con una percentuale di soggetti che continueranno ad applicare loro sponte il distanziamento sociale, guardando in cagnesco chiunque gli si avvicini perché ormai il seme dell’igienismo paranoide è stato sparso in queste giornate. E la fobia del virus potrebbe divenire il trampolino di lancio per ricatti e paralisi sociali di ogni tipo: d’altronde, come Gadda sosteneva mirabilmente, le idee grulle trovano immediato alloggio nelle teste vuote. Preannunciamo finora, per quanto possa interessare, che toglieremo il saluto per sempre a chiunque si azzardi a porgerci il gomito anziché la mano oppure a presentarsi al cinema o al pub munito di mascherina anche a virus debellato.

Tralasciamo, per carità cristiana, di occuparci delle consuete, trite teorie complottistiche immediatamente apparse in rete: citiamo in ordine sparso quali responsabili dell’epidemia la CIA, le multinazionali farmaceutiche, Bill Gates, la Cina che si è fatta sfuggire il virus a bell’apposta, il Pentagono in urto con la CIA, i Rotschild, Soros, il Fondo Bridgewater o anche tutti questi insieme in sinergica, maligna combinazione. Allo stesso modo sorvoliamo sull’ambientalismo millenarista che ci ricorda come tutto questo non sia altro che un atto di ribellione, una punizione della Natura divina martoriata dal malvagio Uomo contemporaneo. Idem come sopra per i chierichetti del “climate change” (colpa del riscaldamento climatico pure l’origine del virus, ovviamente). Tutte queste teorie deliziosamente infantili sono come dei soprammobili kitsch di cui non riusciamo a liberarci: fanno parte dell’arredamento e ci siamo quasi affezionati.

Immancabili anche gli studi dotti e autorevolissimi (griffati da qualche “… Institute” o “… University” ), tutti trasudanti compiacimento perché “niente sarà come prima”. Ci prospettano un futuro dove viaggiare sarà sempre più raro e riservato a chi dimostri di essere perfettamente scevro da ogni patologia (anche dal ginocchio della lavandaia o dal gomito del tennista immagino), dove andare al ristorante sarà un evento circoscritto a locali dove si possa stare tutti adeguatamente distanti, dove gli eventi sportivi diventeranno virtuali, dove tutti i lavori saranno smart e altre agghiaccianti amenità. Un inciso: la celebrazione entusiastica e acritica degli innumerevoli vantaggi del lavoro “da remoto” è una sacrosanta corbelleria.

La tecnologia è un mirabolante strumento ma lavorare da casa deve rappresentare un’ipotesi meramente residuale – circoscritta a qualche giornata durante il mese o a situazioni emergenziali appunto – perché è chiara la gravità della perdita della valenza sociale del lavoro come luogo d’incontro e di scambio come pure perché il rendimento fornito dai lavoratori da casa è notoriamente ondivago. Per tacere della necessità di ciascuno di noi di identificare l’ambiente domestico con uno spazio fisico e mentale riservato al relax, allo stacco dallo stress lavorativo.

Torniamo alla concezione emergenziale del futuro. Nell’immediatezza del 9/11 del 2001 il politologo americano Paul Berman, nel suo saggio, “Terrore e liberalismo” teorizzava come l’integralismo islamico rappresentasse una sorta di nuovo nazismo da cui guardarsi. Certamente, non molto distante da una concezione nazistoide apparirebbe una società che permetta libertà di movimento e azione solo a chi dimostra di essere perfettamente sano o che impone il distanziamento sociale come regola. Tra l’altro, proprio oggi un popolare governatore del Nord Est ha proclamato che le norme a tutela della privacy sono scomode e andrebbero sospese: preferiamo non commentare ma siamo certi che troverà molti consensi anche in questo caso.

Ecco perché qualche cautela anche per le questioni dei diritti e delle libertà individuali nonostante il tempo di emergenza sanitaria andrebbe presa e noi da un futuro in cui “niente sarà come prima” non siamo francamente molto affascinati: ridateci presto la libertà di azione perché è di questo che abbiamo bisogno, ridateci anche lo stress, le code, i gas di scarico e i rumori della città…in fondo non ci siamo mai trovati così male nella civiltà occidentale, sempre rivoltata come un calzino dalle critiche endogene, data sempre per scontata ma mai davvero protetta.

Si badi bene che non siamo assolutamente contrari all’approccio “umanitario” tendente a salvare tutti, né minimizziamo la minaccia epidemica che però andrà valutata nella sua reale portata solo alla fine, quando saremo davvero in grado di contare il maggior numero di vittime rispetto agli anni precedenti e capiremo se tutte le drastiche restrizioni applicate siano state adeguate.

Molto modestamente temiamo che queste tremende misure in atto non siano così decisive nella lotta al virus mentre potrebbero esserlo nel ricacciare all’indietro lo sviluppo della nostra società (anche quello c.d. “sostenibile”, certo), verso quella decrescita per nulla felice che qualche buontempone teorizza ancora.

Milano deserta (fonte: ilgiorno.it).

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