La strage degli elefanti
nelle foreste del Gabon
Un massacro vergognoso e senza precedenti
Nel parco nazionale di Minkébé sono stati uccisi da bande di bracconieri dodicimila pachidermi dal 2004 ad oggi nell’indifferenza delle associazioni animaliste. A fare gola è l’avorio delle loro zanne, comperato a cento dollari al chilo e rivenduto sul mercato cinese a duemila. Un affare colossale che vede organizzazioni criminali collegate alla mafia pakistana e a gruppi di ribelli vicini a Boko Haram. Il sospetto che alcune azioni terroristiche vengano finanziate con i proventi della vendita illegale dell’avorio.
ROMA — Nei circhi italiani, che sono un centinaio tra grandi e piccoli, vivono in tutto una cinquantina di elefanti. Forse anche meno, le cifre non sono precise. Se ci vivano bene o male, e se siano trattati con crudeltà o con dolcezza, è un tema che divide e alimenta polemiche, spesso stolte, a non finire. Per la sorte dei cinquanta elefanti italiani, comunque, come degli altri animali che vivono e lavorano nei circhi, si sono da tempo mobilitate molte associazioni animaliste, o presunte tali, che chiedono che venga vietato l’impiego di animali nei circhi.
Nessuno si preoccupa invece dei novantamila elefanti che ancora sopravvivono (a stento) nelle foreste dell’Africa, e che sono in grave pericolo di estinzione perché vengono regolarmente massacrati e uccisi dai cacciatori di avorio che vendono al mercato nero le loro preziose zanne. Dodicimila elefanti sono stati uccisi nel solo Stato africano del Gabon negli ultimi dieci anni. Vale a dire più di mille ogni anno. E questo nel silenzio assordante delle associazioni animaliste. Non sarebbe male che pensassero a organizzare qualche campagna molto seria in Africa, invece delle sterili pagliacciate di protesta davanti a qualche tendone delle nostre scalcinate periferie.
In Gabon, si diceva, vivono la metà degli elefanti di tutta l’Africa. Più di quarantamila. E li ammazzano come mosche. Nel parco nazionale di Minkébé, uno dei tredici del Paese, settemila chilometri quadrati ai confini settentrionali con il Congo e il Camerun, una foresta fitta senza strade né paesi descritta come «un miracolo della biodiversità miracolosamente preservato dagli attacchi dell’uomo», bande di bracconieri hanno ammazzato dodicimila dei venticinquemila elefanti della regione dal 2004 ad oggi.
Un’escalation impressionante alla quale non sembra esservi rimedio, nonostante che il presidente del Gabon, Ali Bongo Ondimba, abbia dichiarato a Le Monde che la lotta al bracconaggio «è una priorità nazionale», e che il direttore del parco di Minkébé, il biologo Joseph Okouyi, abbia programmato delle «azioni in profondità nella foresta contro i bracconieri», d’intesa con il comandante dell’esercito, Allogo Ovono, che peraltro lamenta la scarsità dei mezzi a disposizione. Birre comprese.
Christophe Chatelot, in un interessante reportage dal Gabon sull’autorevole quotidiano francese, racconta che vi sarebbe un legame malavitoso tra i bracconieri che uccidono gli elefanti per rubare e vendere le loro preziose zanne di avorio, e alcuni gruppi ribelli djihadisti della regione, affiliati a Boko Haram, che finanzierebbero una parte delle loro attività proprio grazie ai proventi della vendita illegale dell’avorio. L’affare infatti è colossale: l’avorio strappato agli elefanti viene comperato nella foresta a cento dollari al chilo, e rivenduto a duemila (sempre dollari, sempre al chilo), sul mercato cinese.
La mattanza non ha tregua. Nella Repubblica Centro Africana i ribelli sudanesi hanno ammazzato in un solo giorno, sempre per via delle zanne, duecento elefanti in un colpo solo. «Sono gli stessi gruppi criminali che fanno anche traffici di droga e di esseri umani», spiega a Le Monde| il responsabile dell’Anpn, l’agenzia dei parchi nazionali, Lee White. Lui sostiene che anche i pigmei vengono talvolta utilizzati come cacciatori di frodo da gruppi di etnia bantù del Camerun e della Nigeria che rivendono poi l’avorio alla mafia pachistana, la quale, a sua volta, lo avvia sui mercati della Cina.
Non sono comunque in molti a credere all’impegno dichiarato dal governo del Gabon, un Paese coperto all’ottantotto per cento da foreste rimaste allo stato primitivo, con solo un milione e mezzo di abitanti (settecentomila dei quali nella capitale Libreville), e governato da cinquant’anni da una sola e discussa famiglia, quella dei Bongo (farebbero felice Calderoli), accusati di coltivare affari, clientele e interessi molto privati.
Non sarebbe male se, invece di fare tanto fumo in Italia, le associazioni animaliste andassero a fare un po’ di arrosto nel Gabon.★