Il pozzo e il pittore
«Questa è l’unica vecchia villa veneta restaurata del paese – racconta l’amico parroco – la mura qui a fianco stava cadendo, era ormai sgretolata dal tempo, nessuno se n’era mai occupato, forse era più di un secolo che era così, abbandonata. L’ho voluta rifare io, coi coppi e le pigne di cemento sopra i pilastri, come immagino forse stata nei tempi migliori. Poi ho fatto costruire due nicchie: in quella esterna ho fatto murare quel bassorilievo in terracotta con la natività».
CESSALTO – «Mentre all’interno ho voluto inserire quella Madonna della mela, rifatta da un professore della zona da uno stampo robbiesco che s’era portato a casa dalla Toscana. Ora stanno completando tutta la piazza qui davanti, demoliranno anche quel rudere di negozio chiuso e abbandonato da ancor prima che io arrivassi qui».
I ragazzi che entrano ed escono dalla villa, diventata oratorio e piccolo centro culturale (musica, cinema e, quando c’è la possibilità, mostre) poco si curano del fatto che la struttura originaria sia antica di mezzo millennio. C’è l’austero ampio fabbricato padronale, su tre piani, e una doppia barchessa laterale a due piani affiancata, costruita probabilmente in epoche differenti. Stalla, cantina, granaio e fienile, e i bachi da seta al piano superiore. Lunghi travi trasversali originari d’epoca, rinsaldati e inzuppati di antitarlo, sostengono i soffitti e delimitano gli ampi saloni dai muri grigio caldo. Sulla facciata, in doppio livello, tutta una serie di ganci di ferro infissi al muro: forse per agganciare strutture, o corde, per farci una tettoia nel periodo della mietitura o della vendemmia.
Davanti alla villa, rivolta a una decina di gradi sud-ovest, un largo prato dove i ragazzi giocano a pallavolo o a calcio. Oppure semplicemente si rincorrono, scherzando con quella loro tremenda vigorosa e lesta gioventù ancora perfettamente ignara delle trappole del futuro.
Sul prato, dal lato del fabbricato, c’è il vecchio pozzo. Basso e senza orpelli, il corpo cilindrico di mattoni, rivestito di intonaco color rossiccio sbiadito. Una volta aveva pure i montanti di ferro battuto, incastrati a mano e saldati alla pietra col piombo fuso, bassi anche questi, che potevano fare da sostegno a un asse trasversale dove la catena veniva avvolta da una manovella laterale, tipo un mangano. Quel che ne resta è rimasto lì, inutilizzato. Anzi, crea pure qualche problema di incolumità, durante giochi e attività, si sa mai che un ragazzo di corsa ci vada a dar di cozzo, e così nelle gare viene avvolto nella gommapiuma e diventa un ingombro da schivare, nulla più. Ma rimane un pozzo, un foro verso il buio, dal quale le massaie d’epoca attingevano l’acqua per bere (umani e bestie) e per i mestieri di casa (tinozze per il bagno comprese, chi ce le aveva). L’acqua c’è ancora, stagnante e putrida, e d’estate olezza pure di marcio.
Ogni pozzo ha la sua vera, la pietra rotonda forata, il colletto che gli fa da superficie. Quella del pozzo della villa è una vecchia pietra di frantoio per olive: lo si evince dal fatto che è scavata all’interno, lasciando i bordi alti a far da argini alla poltiglia frantumata in olio. Che si riversava poi nel contenitore attraverso la conduttura laterale, il becco, una specie di canaletto laterale che si restringe in punta. Probabilmente la pietra arriva da fuori zona, magari è stata fatta scendere dalle colline, poiché questa è zona pianeggiante, appena un poco a est della bonifica basso liventina, poco adatta per piantarci olivi. Come la pietra di frantoio sia finita proprio sopra il pozzo nessuno lo sa dire e, siccome le spiegazioni più difficili poi solo le più elementari, probabilmente è stata messa lì perché, oltre ad essere di misura giusta, altro posto non c’era. O forse no, l’idea del frantoio è solo una pia illusione, il pozzo potrebbe essere stato affiancato da una pompa che estraeva e riversava l’acqua nel canaletto della pietra per poi riempire un abbeveratoio laterale. Ci vorrebbe uno studioso, uno storico dell’architettura competente, per svelare il mistero, specie oggi che storici e studiosi ne abbiamo a carrettate. Loro ci spiegano tutto, però così facendo ci tolgono la possibilità di fare congetture, di sincretizzare intuito e fantasia, di allenare la mente a pensare fuori dagli schemi. Vabbè, di vere da pozzo ne abbiamo già viste insomma, non è un manufatto tanto raro, anzi, solo che dopo l’arrivo dell’acqua corrente in casa, delle vere e dei pozzi abbiamo perso uso e memoria.
Il pozzo oramai è chiuso, da decenni. Protetto da una grata di ferro, per evitare il pericolo che qualcuno, non più educato all’uso e alla pericolosità dei pozzi, ci cada dentro. Poi, sopra la grata di ferro battuto, è stata messa una rete a maglie molto strette. Per evitare che qualcuno, non più tanto educato a un certo decoro dell’ambiente (oggi prati e giardini, con o senza relativi manufatti, si chiamano così, ambiente) ci getti dentro barattoli e cartacce, che poi bisogna pulire e sono lavori anche questi che hanno i loro costi e si possono evitare. Poi ancora, visto che l’acqua putrida sul fondo del pozzo ancora non vuol capire che non è più utile a nessuno, puzza e fa solo da incubatoio per le uova di pestifere zanzare cannibali, la bocca del pozzo è stata tappata da una spessa lastra di metallo scuro. Soffocata, così che l’aria, e l’acqua che ci sta sotto, da quel pertugio non possa più respirare.
Storia decisamente banale, sin qui. Se non fosse che, qualche mese fa, uno strano pittore capitato sin qui, in questo paese di neanche quattromila anime al limite sud della provincia di Treviso, gironzolando dentro e fuori la villa, ascoltò i racconti e considerò con particolare attenzione ogni anfratto della costruzione, esterno e interno, dai coppi alle travi dei soffitti (anche quelle carbonizzate in superficie dall’incendio) ai differenti strati in muratura che sbucavano qua e là dove la malta s’era staccata. Un individuo, ‘sto pittore, magari allegro ma di quelli strani, quasi sempre vestito di nero, col berretto di lato che nessuno ormai porta più. Una sera d’estate, mentre in giro non c’era nessuno e in cielo solo le stelle poiché c’era scuro di luna, il pittore si sedette sopra la vera del pozzo, assorto in certi solitari pensieri che gli artisti sembrano avere in mente (mentre magari non pensano a niente, beati loro che ci riescono). Forse rimuginava sul fatto che il pozzo era l’esatto contrario del campanile che si stagliava poco distante contro il riverbero scuro dell’orizzonte; il campanile è una torre ben visibile proiettata verso l’alto, anela a Dio e ai Santi, serve per richiamare i fedeli alle funzioni. È maschile, fallico, unico principe del borgo, con le sue campane è simbolo del potere secolare o spirituale che sia. Mentre il pozzo è oscuro, ctonio, immette nelle viscere della terra, è femminile e ce ne sono tantissimi, ogni casa ha il suo; dentro c’è l’acqua (su quanto possa essere stata pura e casta c’è qualche dubbio), bene prezioso e indispensabile per la vita.
D’improvviso sobbalzò dalla vera del pozzo sopra cui si era seduto e ci si mise in piedi, di fronte, in silenzio, tra l’impaurito e il curioso. Sembrava ascoltare qualcosa, in quel silenzio notturno totale del centro paese.
Giorni dopo, quando la villa si era popolata di ragazzi e altra gente, il pittore ritornò e chiese al parroco come mai il pozzo era stato chiuso. Gli fu risposto quello che già sappiamo. Ma il pittore tentennò, scosse la testa, non sembrava d’accordo.
«Quel pozzo non l’avete tappato per il pericolo che qualcuno ci possa cadere dentro – disse a bassa voce – no, là dentro, dal fondo, ho sentito ansimare… voi il pozzo l’avete chiuso per paura, per impedire a chi c’è là dentro di uscire fuori!»★