Il giorno che Oreste
andò al pianoforte

Una storia fuori dal comune

La bizzarra vicenda di un gruppo di artisti anziani, ospiti di una casa di riposo, che decidono di tornare sulle scene per dare vita ad un varietà d’altri tempi, sta diventando un caso letterario. La vicenda narrata nel romanzo «Ultima Turnè» di Roberto Bianchin, edito da I Antichi Editori, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento del primo posto nella sezione letteratura al Premio Letterario Internazionale Gian Antonio Cibotto, intitolato al grande scrittore italiano del Novecento. Una storia destinata a diventare uno spettacolo teatrale. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il primo capitolo del romanzo. Potrete leggerne il seguito acquistando il libro direttamente sul sito dell’editore: www.iantichi.org. Buona lettura.

Oreste andò al pianoforte. Anche perché era difficile che il pianoforte andasse a lui. Avvicinò con molta cautela lo sgabello al pianoforte e poi il pianoforte allo sgabello. Si sedette. Tirò un sospiro e un’imprecazione soffocata. Poi si tolse una scarpa, la sinistra, era quella che gli stava stretta e gli faceva male, e la sbatté fortissimo sui tasti fracassandone tre. Due bianchi e uno nero.
“Così la smetterai di rovinare la mia musica”, gridò allo strumento. Lo strumento non rispose. In quel momento entrò il Direttore.
Oreste filò via senza voltarsi, come spinto da un vento invisibile, il Direttore fece finta di nulla. Era in compagnia di un omino. Piccolo, grassoccio, sudato e quasi calvo, gli occhi come biglie da spiaggia. Vestiva un completino alquanto improbabile a quadrotti rossi e gialli, e aveva un gilet dagli stessi colori. Un cipollotto che segnava le ore, ma solo quelle dispari, pendeva appeso a una catenella d’oro che sbucava da un taschino.
L’omino si guardava intorno curioso. Teneva le manine, anche queste piccole, grassocce e sudaticce, incrociate sul davanti, all’altezza dell’ombelico, e fra le minuscole dita rosate stringeva un cappello, una bombetta rosso fuoco, strapazzandone il bordo. Anche il Direttore sembrava un po’ a disagio. Strabuzzava gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. Ma a parte Oreste, che se n’era appena andato, e il vecchio Steinway a coda rimasto con tre denti di meno, non c’era nessuno.
Dormiva muta e silenziosa, in fondo al vialone alberato che tagliava in due il paese, la casa di riposo per artisti di varietà Artidoro Bricconcioni. Un’elegante palazzina a due piani di architettura neogotica. Austera, imponente, dipinta di rosso mattone, era intitolata a un acrobata italiano dei primi del Novecento che era divenuto famoso in Francia, dove si narrava –ma non c’erano conferme scritte- che fosse stato allievo del celeberrimo Vander Clyde, in arte Barbette, amato e celebrato da mostri sacri come Man Ray, che lo aveva fotografato in tutte le pose, e Jean Cocteau, che lo aveva magnificato in tutti gli scritti.
Sarà stato per via di quel nome bizzarro, Artidoro, che si credeva derivato per sincope dal greco Artemidoro, ed era appartenuto a personaggi storici di spicco come l’illustre geografo Artemidoro di Efeso (primo secolo avanti Cristo), e il fecondo scrittore Artemidoro di Daldi (secondo secolo avanti Cristo), fatto sta che anche Artidoro Bricconcioni, come il suo maestro Barbette, era stato un precursore dell’acrobatica en travesti. Un genere che avrebbe preso molto vigore nei secoli a seguire, e del quale Achille Marmiroli, il Direttore Plenipotenziario della casa di riposo, era un grandissimo estimatore. Ma in questo momento aveva altro da pensare. Saltellava inquieto per il grande salone affrescato con ritratti di artisti del passato, cercando disperatamente, a passi di gazzella, di incrociare qualcuno dei suoi ospiti. Ma non c’era in giro anima viva. Stagnava un silenzio malsano.
Era ancora un bell’uomo, proprio come Teddy Reno, al quale un poco assomigliava, il Commendator Achille Marmiroli. Alto, slanciato, elegante, occhi troppo pieni di azzurro, era sempre perfettamente agghindato come se dovesse andare a un ricevimento all’ambasciata (cosa che adorava, peraltro). Camicie dal colletto inamidato, giacche sfiancate di ottima fattura, sgargianti papillon, capelli impomatati dai riflessi pericolosamente ramati. Il tempo che passa sembrava non riuscire a scalfirlo. C’erano artisti, nella casa di riposo, che stavano lì da molti anni, e che si domandavano, nelle lunghe conversazioni dell’ora del the, come facesse il Direttore Plenipotenziario a rimanere sempre uguale al primo giorno in cui lo avevano visto. Qualcuno sosteneva che fosse merito di una cremina miracolosa, unguento di cucciolo di tigre femmina, che gli aveva portato il Principe Maurice, suo amico d’infanzia, di ritorno da Malibù dove aveva interpretato, in una gustosissima commedia in costume, il bizzoso personaggio di Giacomina Casanova, sorella dissoluta e impenitente del mai abbastanza evocato Giacomo Girolamo.
Comunque gli volevano bene. Perché era gentile con tutti, aveva dei bei modi, e la domenica comperava le pastine. Doveva essere stato anche lui, inevitabilmente, un artista di varietà in una qualche lontana gioventù. Ma nessuno sapeva –o forse ricordava- di quale tipo di varietà. Nessuno sapeva nemmeno per quali meriti, reali o presunti, palesi o nascosti, o per quali misteriosi motivi i benefattori che sostenevano finanziariamente l’ospizio lo avessero nominato Direttore Plenipotenziario, e non avessero mai pensato, nemmeno lontanamente, di sostituirlo. Per dirla tutta, non capivano nemmeno cosa volesse dire quel Plenipotenziario che era stato aggiunto alla qualifica di Direttore. Ma questo se l’erano chiesto all’inizio. Poi, non avendo trovato risposta, avevano saggiamente smesso di chiederselo. Così come si erano chiesti, sempre invano, per quali meriti fosse stato nominato Commendatore, e soprattutto da chi. Anche a questa domanda non avevano trovato una risposta.
L’unica cosa certa è che, per motivi altrettanto misteriosi, oppure dimenticati –forse per l’andatura che aveva quando scendeva le scale- lo chiamavano Wanda. Naturalmente quando lui non poteva sentirli. Magari avrebbe potuto irritarsi. Oppure no, chissà. Prenderlo come un complimento. In ogni caso era meglio non rischiare. Farlo irritare era l’ultima cosa che volevano.
“Mi aspetti qui”, disse il Direttore Plenipotenziario all’omino che era entrato con lui. E con un gesto morbido, appena accennato, gli indicò una vecchia poltrona di velluto grigio naufragata in un angolo del salotto.
“Vado a cercare l’artista di cui le parlavo -aggiunse con un tono di voce molto felpato- nel frattempo può suonare il piano, se vuole”.
“Ma io non so suonare il piano! -rispose l’omino, aveva qualcosa di acido nella voce- e anche se sapessi suonare, non potrei farlo. Ha i tasti rotti!”.
Il Direttore Plenipotenziario nemmeno lo sentì. Svolazzava in direzione di un corridoio dalle luci azzurrate che sembrava lunghissimo. Da lontano lo sentì imprecare in una lingua sconosciuta, non riuscì a capire le parole.
Si guardò intorno. La stanza in cui era entrato nel momento in cui Oreste aveva spaccato i tasti del pianoforte, era piuttosto ampia, confortevole, e bene illuminata. Chissà cosa gli avrà fatto, pensò riguardo allo strumento. Il piano ferito distendeva la sua lunga coda lucida e nera davanti a un’enorme vetrata dietro la quale si intravvedeva –le tende, di color avorio, erano tirate- un giardino ben curato, con alberi, palme, siepi e piante ad alto fusto, aiuole colorate di fiori di ogni tipo, vasi di limoni, vialetti di ghiaia ben pettinata e comode panchine di legno verde con cuscini in tinta per sedersi a pisolare e spettegolare nella buona stagione.
In fondo al giardino si apriva, sotto un arco centrale di pietra sorretto da colonnette corinzie, un altro edificio, questo molto spettacolare, che pareva l’ingresso di un tempio neoclassico, con una riga di finestrelle vezzose di vetri smerigliati, cornici di marmo bianco tutto intorno, buffe statue che facevano sberleffi, mascheroni di pietra e fontane luminose ai lati.
La sala del pianoforte era più intima. I colori più caldi, i tendaggi più morbidi. Più legno che pietra. Accanto al piano dormivano un’arpa dalle dimensioni inconsuete, più celtica che birmana si sarebbe detto per via della grandezza, una poltrona di broccato azzurro, uno scrittoio di altri tempi con tanto di penna e calamaio –andò a curiosare, era una strepitosa Parker 51 in oro e argento con il sigillo di diamante blu- e un mobile di legno rossastro, probabilmente ciliegio, dall’utilizzo incerto, dato che conteneva indifferentemente giornali e riviste, spartiti musicali, piatti e zuppiere di ceramica dipinti con scene di caccia, e pacchetti vuoti di sigarette americane. La parete di fondo era invece ricoperta da una monumentale libreria in legno di frassino che conteneva principalmente biografie di artisti del passato. Soprattutto cantanti lirici, gli sembrò.
Sopra la sua testa, pendeva minaccioso dal soffitto a cassettoni un gigantesco lampadario fatto di globi enormi di vetro bianco –cristallo, li battezzò- mentre sotto ai suoi piedi dormivano morbidissimi tappeti di tipo persiano. Piuttosto consumati –constatò- qualcuno anche con dei buchi rattoppati alla bell’e meglio, mimetizzati dall’incastro dei colori. Il tempo, a ben guardare, qualche segno lo aveva lasciato. E alcuni erano piuttosto visibili, come nelle tele un po’ lise dei ritratti degli artisti alle pareti, sui braccioli delle poltrone, sulle assi sconnesse del vecchio parquet, sui pezzi di muri scrostati, sulle tracce di muffa che spuntavano negli angoli.
“Rieccomi! -lo scosse dai suoi pensieri la voce squillante del Direttore Plenipotenziario- mi scusi se l’ho fatta aspettare, ma ho dovuto correre in teatro”. Non era più solo. Lo seguiva, a una certa distanza, con passi misurati, lenti e lunghi, un uomo bellissimo. Alto, impettito, dal portamento aristocratico. Aveva lunghi capelli d’argento, e vestiva un frac spettacolare, tutto di paillettes rosa, dalle scarpe (col tacco), fino al cilindro, che portava sulle ventuno anziché sulle ventitre.
“In teatro?”, si sorprese l’omino, che non sapeva più se guardare il Direttore o non piuttosto il nuovo venuto, che aveva attirato subito, inevitabilmente, la sua curiosità.
“Certo –rispose il Direttore Plenipotenziario come se fosse la cosa più normale del mondo- abbiamo anche un teatro, e modestamente è un teatro bellissimo, perfettamente attrezzato e pienamente funzionante. Siamo artisti, no?”.
“E date anche delle rappresentazioni?”.
“Naturalmente”.
“Di che genere?”.
“Oh, di ogni genere. Qui ci sono artisti di tutte le specialità. Ottimi artisti. Alcuni sono stati anche famosissimi. Gli spettacoli dipendono dalla loro disponibilità, dalle loro idee, dalle situazioni, e logicamente anche –o per meglio dire soprattutto- dalle loro condizioni di salute. Capirà, data l’età…sto parlando di salute sia fisica che mentale, si capisce. Ma principalmente mentale, direi”.
“Capisco. Mi piacerebbe vederli, qualche volta. Si può assistere a questi spettacoli?”.
“Normalmente possono assistervi solo i familiari e gli amici degli artisti, non sono aperti al pubblico. Ma talvolta possiamo fare qualche eccezione. Le farò sapere”.
“Mi farà molto piacere. Grazie”.
“Ma scusate! Che sciocco, non vi ho ancora presentati!!! Il Cavalier Giancamillo Leonfoschi, impresario teatrale –disse indicando l’omino seduto sulla poltrona di velluto grigio- e questi è il Marchese Gabriele Maria Baldironi de Scheroditz, regista e presentatore di spettacoli di arte varia –aggiunse voltandosi verso l’uomo in frac rosa- ma tutti lo chiamano Ricky, il nome d’arte che si era scelto, prima di diventare Bob R. White, quando lavorava al Cirque d’Hiver di Parigi. E’ stato un eccellente Monsieur Loyal. Uno degli ultimi. Aveva voluto chiamarsi così in omaggio a Ricky Piller, leggendario ringmaster del Circo Americano, che gli era stato maestro insieme al francese Sergiò del Paradis Latin. Un altro gigante dello spettacolo”.
L’impresario allungò la sua manina, sempre sudaticcia, verso quella che gli aveva teso, sorridente, il presentatore. Anche la sua stretta era molliccia, proprio come la manina. I due uomini si annusarono in silenzio come fanno i cani. Per capire se potevano piacersi. All’impresario sembrava che il presentatore si fosse truccato come se dovesse andare in scena. L’aveva in controluce e non riusciva a vedere bene. Ma gli sembrò di indovinare una cipria molto leggera, appena ambrata, sulle guance, una riga nera e dritta, di matita morbida, sugli occhi, e una boccuccia dipinta a cuoricino con un rossetto rosa pallido.
L’impresario guardò questo spettacolo di uomo con un’aria tra lo stupito e l’ammirato. Non disse nulla. Il suo mestiere lo aveva abituato alle stravaganze degli artisti. Pensò solo, e questo gli piacque molto, che era perfetto per quello che aveva in mente.
“Marchese?”, chiese soltanto.
“Per parte di nonna, nonna materna -rispose Ricky con nonchalance guardandosi l’unghia del mignolo sinistro- era Marchesa di Cavour. Cavour inteso come paese, s’intende”.
“Ricky –troncò sul nascere questo discorso sulla nobiltà prima che prendesse un’altra piega il Direttore Plenipotenziario, appoggiandogli paterno una mano sulla spalla destra, Ricky tirò indietro la spalla- il Cavalier Giancamillo Leonfoschi, come certamente saprai, è uno dei più celebrati impresari teatrali del momento, e la sua visita ci rende felici e ci onora”. All’impresario sfuggì un sorrisetto compiaciuto che cercò subito di nascondere. Finse uno sbadiglio e si coprì la bocca con una mano. Dentro la mano c’era un fazzoletto bianco di batista. O forse era suo davvero.
“E’ venuto qui –proseguì il Direttore Plenipotenziario, e la voce gli uscì in falsetto- perché ha un’interessante proposta da farci. Me ne ha accennato, e la cosa personalmente mi trova assolutamente d’accordo. Anzi ti dirò che mi entusiasma proprio. Ma preferisco che sia lui stesso a parlartene. Accomodati qui, Ricky –così dicendo avvicinò una sedia a dondolo thonet- io vi lascio soli. Vi raggiungerò per l’ora del the. Lo preferisce col latte, Cavaliere?”.
“No, no, per carità”.
Ricky si sedette con circospezione per non rischiare di spiegazzare le code del frac. Poi appoggiò lentamente i palmi delle mani aperte sulle ginocchia e fissò negli occhi l’impresario. Era pronto.
“Ma che bel vestito!”, esclamò l’impresario. Così, tanto per rompere il ghiaccio. Per metterlo a suo agio. Ma Ricky, che non aveva ancora detto una parola, non sembrava molto di buonumore. Né disposto a scherzare.
“Grazie”, rispose in automatico, senza entusiasmo.
“Si veste sempre così?”, rincarò l’impresario.
“Logico. Il mio abito è questo. Come dovrei vestirmi, da Pulcinella forse?”, rispose un filo risentito.
“Volevo dire, anche quando non c’è spettacolo?”.
L’ottimo presentatore Ricky, come lo chiamavano quando faceva “Il Circo delle Stelle” alla televisione francese e aveva la coda di ammiratori fuori dal camerino, non afferrò il senso della domanda. E neanche il doppio senso.
“Che significa quando non c’è spettacolo? Non è uno spettacolo la vita? E non stiamo noi forse sempre in scena? E non stiamo facendo uno spettacolo, magari uno spettacolino anche modesto, per carità, ma pur sempre uno spettacolo, anche io e lei in questo momento? Io con questo frac di paillettes rosa e lei con quel ridicolo –mi perdoni- completino a quadrettoni?”.
“Mi scusi Ricky, non volevo offenderla”, abbassò gli occhi e la voce il celebre impresario.
“Signor Ricky, prego. Non pretendo che mi chiami Marchese, come pure mi spetterebbe, ma almeno Signore. O Monsieur. Monsieur Ricky, si vous le préferez. C’est plus élegant. Lei parla francese, Cavalier Leonfoschi ?».
« Non bene come lei » , rispose, piccatino a sua volta, l’impresario. Ricky annuì. Adesso la tensione cominciava a sciogliersi.
“Veniamo al punto”, sparò diritto l’impresario tagliando di netto i convenevoli. Erano già durati fin troppo. Fissava il presentatore in un punto preciso in mezzo agli occhi.
“Il motivo della mia visita è artistico, caro Marchese –ops- caro il mio Monsieur Ricky”, disse con enfasi, dandosi importanza, le piccole braccia sollevate per metà. “Per l’esattezza si tratta di un progetto artistico. Vale a dire che sono qui per organizzare uno spettacolo. Lo spettacolo di tutti gli spettacoli!”.
“La ringrazio del pensiero –rispose Ricky con fare gentile, senza tradire alcun entusiasmo- ma non ci servono impresari per gli spettacoli che facciamo qui nella casa di riposo. Bastiamo e avanziamo noi, facciamo tutto da soli”.
“Non mi sono spiegato –riprese il filo del discorso spezzato l’impresario- sono qui per organizzare uno spettacolo, certo, ma non si tratta di uno spettacolo da fare qui”.
“E dove, allora?”.
“Ma fuori!”.
“Fuori dove?”.
“C’è un mondo fuori da qui, no? O per caso se l’è dimenticato stando qui da troppo tempo, Monsieur? Lo ha detto anche lei che la vita è uno spettacolo. E ci sono mille posti dove si può fare spettacolo”.
“Ma noi, mi scusi, cosa c’entriamo?”.
“Ecco il punto, Signor Ricky, proprio questo è il punto. E lei lo ha magistralmente toccato. Mi complimento vivamente. Perché io lo spettacolo lo voglio fare con voi, proprio con voi: con i meravigliosi artisti della casa di riposo Artidoro Bricconcioni !”. Così dicendo disegnò nell’aria con il braccio destro un semicerchio, come a voler distendere un’enorme insegna, lo strillo di un manifesto formato elefante. Ricky seguì con lo sguardo quell’insegna immaginaria e ci vide stampato sopra il suo nome a caratteri cubitali. Intorno, una collana di lampadine di tutti i colori. Socchiuse gli occhi e per un attimo sorrise, perché sognò applausi e carovane e titoli di giornale. Poi li riaprì.
“Ma noi siamo in pensione ormai da anni”…disse con poca voce e abbassò gli occhi. “Da troppi anni”…aggiunse piano.
“Vede, Signor Ricky –riprese l’impresario, implacabile, sapeva essere implacabile quand’era il momento, e adesso qualcosa gli diceva che il momento era quello- il mondo dello spettacolo dal vivo sta passando un momento molto difficile. Uno dei peggiori della sua storia. Lo lasci dire a me che di questo mondo faccio parte. Gli spettacoli che vengono proposti sono mediamente modesti, spesso anche molto modesti, talvolta decisamente brutti. Sono banali, sciatti, ripetitivi. Mancano le idee, non nascono più talenti e la gente è distratta da internet, da altro. Servono nuove cose, stimoli diversi. Bisogna risvegliare la curiosità. Per questo sono qui!”, disse sbattendo i tacchi con l’enfasi di un provetto ballerino di flamenco. Forse lo era stato in gioventù.
“Cose nuove? E le viene a cercare qui? Ma se qui è tutto vecchio, si guardi intorno!”, sbottò Ricky buttando un’occhiata allusiva ai tendaggi polverosi e ai tappeti ammuffiti.
“E’ nuovo tutto quello che non si conosce –sentenziò l’impresario, cocciutissimo- io voglio rimettere in scena un grande varietà, di quelli cosiddetti à l’ancienne, come non se ne fanno e non se ne vedono più. E ho pensato a voi perché voi sarete la grande novità dello show. Siete nuovi, nuovissimi, perché il pubblico di oggi non vi ha mai visti. Nessuno sa niente di voi. Non sanno nemmeno della vostra esistenza. Quelli che vi avevano ammirato sulle scene quando eravate famosi, o comunque in attività, sono quasi tutti morti. E i giovani non vi hanno mai visto perché ormai era troppo tardi, in quanto vi eravate già ritirati dalle scene. E’ la quadratura del cerchio. Non siete il vecchio che ritorna. Sarete il nuovo che avanza!”.
Adesso Ricky cominciava a capire. E a parte la forzatura del nuovo che avanza, che gli pareva francamente una stupidaggine, la proposta cominciava a piacergli.
“A che tipo di spettacolo pensava?”.
“Un varietà vecchia maniera, gliel’ho detto. Tanto vecchio da sembrare nuovissimo. Con le ballerine, gli acrobati, i cantanti, il presentatore, il mago, il giocoliere, e le baracche dei fenomeni”…
“Anche i fenomeni?”.
“Certo. Fachiri e indovini, donne barbute e donne cannone, insomma tutto quello che si riesce a trovare”.
“Caspita, come una volta!”.
“Proprio come una volta. Come Barnum. Come Franconi. Oggi nessuno fa più spettacoli così. Sarà una novità assoluta. E prevedo, logicamente, un grande successo. Faremo un battage pubblicitario come non se ne sono mai visti. Articoloni sui giornali, comparsate alle televisioni, riempiremo i teatri e le piazze, tutti parleranno di noi!”.
“E dove ci esibiremo?”.
“Ovunque. Proprio come una volta. Nei teatri d’inverno e nelle piazze d’estate, ma anche nelle feste e nei palazzi, e se sarà il caso e se ne presenterà l’occasione, anche sotto un tendone da circo, che noleggeremo appositamente. Ho in mente delle atmosfere molto felliniane”…
“Avremo un vero chapiteau?”.
“Verissimo! A righe bianche e rosse fuori, dentro un cielo blu cobalto tempestato di stelle d’argento. Quattro antenne e ottocento poltroncine di velluto rosso, tutte numerate. Un bijoux. L’ho già adocchiato. Adesso dorme nel prato di una villa a San Donà di Piave. Ce lo procurerà il nipote di Moira, Moira Orfei, la regina del circo: Alessandro Serena, si chiama. E’ un mio caro amico, lui conosce tutto del circo. Pensi che lo insegna persino all’università!”.
“All’università! Ma cosa mi dice mai!!! Da quando in qua si insegna circo?”.
“Da alcuni anni. Non è una meraviglia?”.
“E’ una follia!”.
“Non c’erano mai state tante tesi di laurea sul mondo del circo”.
“Ne faranno una anche su di noi?”.
“Non è escluso”.
“Ha già un nome per lo spettacolo?”.
“Certo, ho pensato a tutto. Si chiamerà “Stelle d’argento”. Proprio come quelle dipinte nel cielo dello chapiteau. Sottotitolo: “Il varietà della Belle Epoque”. E poi scriveremo: “con un cast di artisti internazionali”. E sotto tutti i vostri nomi”.
“Tutti? Proprio tutti?”.
“Tutti tutti. E scritti a caratteri belli grandi, in grassetto, che si leggano da lontano”.
“Quanti spettacoli pensa di fare?”.
“Pensavo a una tournée. Per carità, una piccola tournée, almeno per il momento. Per tastare il terreno e testare lo spettacolo. Qualche settimana, forse qualche mese. Cominceremo dai paesi. Poi, se va bene, affronteremo le città. Partendo dalle piccole per arrivare alle grandi. Penserei di partire in primavera”.
“Perché Stelle d’argento?”.
“Non le piace?”.
“No, no, chiedevo soltanto”.
“Perché è evocativo. Un potenziale evocato, come dicono quelli che hanno studiato. Stelle perché siete stelle dello spettacolo, delle star come si dice, o almeno lo siete stati…eravate famosi ai vostri tempi, no?”.
“Famosissimi. Oddio, proprio non tutti. Ma molti sì. Io per esempio lo ero. Su in camera, sotto al letto, tengo una valigia piena di ritagli di giornale che parlano di me, di foto e manifesti con il mio nome. Li vuole vedere? Salgo a prenderli, ci metterò un attimo”.
L’impresario lo fermò con un cenno, molto garbato ma fermo, della mano.
“Non si disturbi, grazie. Non mi serve. So benissimo che siete artisti di prim’ordine. Il Direttore Plenipotenziario mi ha parlato molto bene di voi”.
“Il Signor Direttore Plenipotenziario è sempre molto gentile. Stelle comunque va bene. Ma d’argento è per via dell’età? Forse per il colore dei capelli?”.
“E’ un gioco di parole. Sì, vuol dire anche quello, capelli d’argento, come Kit Carson, ma vuol dire anche una cosa preziosa, di un metallo pregiato. Quasi un premio. E poi è il titolo di una canzone dei vostri tempi. La ricorda? Stella d’argentoooo, che brilli nel ciel, il tuo splendor mi fa morir di nostalgìiiiaaaaaa”….
“Bella. Bellissima. Chi la cantava?”.
“Mah, mi faccia pensare…uhm, Gino Santercole, mi sembra”.
“Il cugino di Celentano?”
“Nipote, nipote, mi pare fosse il nipote”.
“Non era malaccio. Che fine avrà fatto?”.
“Chissà”.
“Credo non canti più da un bel pezzo”.
“Lo rimpiange qualcuno?”.
“Non direi”.
“Tornando a noi…e la paga?”.
“Per i primi tempi dovremo stare molto attenti alle spese. Ci sarà da investire parecchio per partire con questa impresa. Penso ai costumi, agli attrezzi, alle scenografie, agli spostamenti, ai trasporti, ai manifesti, alla campagna pubblicitaria. Oltre ai compensi per artisti e tecnici, è evidente. Direi che per i primi spettacoli io potrei garantire viaggi, vitto e alloggio, e una percentuale sugli incassi. Poi, se tutto andrà bene, come mi auguro, divideremo gli utili fra tutti in parti uguali, come facevano le compagnie di una volta, al tempo dei carri dei comici”.
Ricky restò in silenzio. Si guardava la punta delle scarpine rosa a tacco alto. Erano lucidissime. Fuori c’era un cielo in bianco e nero.
“Allora, che ne dice?”, lo interrogò, dopo un lungo silenzio, l’impresario.
Ricky ci mise un po’ prima di rispondere. Come se stesse riflettendo. In effetti rifletteva. Stava riflettendo sul fatto che un pagliaccio –tale si considerava, nel senso migliore e più artistico della parola- un pagliaccio deve ben sapere quand’è giunta l’ora di uscire di scena. Il problema era che non sapeva se era giunta l’ora di rientrare. Perché il tempo, disse, ma a voce così bassa che l’impresario non lo udì, il tempo che passa apre voragini. Parlò sempre a voce molto bassa, sempre con gli occhi fissi sulla punta delle scarpine.
“Non lo so. Davvero non so…Certo, la sua proposta ci lusinga e ci onora, come ha detto il Direttore Plenipotenziario. Ad ogni artista, di qualunque età, fa piacere, fa molto piacere quando qualcuno gli propone di andare in scena. O di tornare in scena, come in questo caso. Sì, la prospettiva è decisamente allettante. Però”…
“Però?”
“Però non so, le ripeto. Siamo vecchi, molti di noi sono in pensione ormai da anni. E non so quanti di noi saranno in grado di tornare sulla scena e di rifare i numeri che li avevano resi famosi. Sempre ammesso che siano disponibili a tornare sulla scena, anche questo non lo so”.
“Vecchi, diceva. Quanto vecchi?”.
“Beh, ci sono persone di tutte le età. I più giovani hanno una sessantina d’anni, poco più, i più vecchi oltre cento”.
“Più di cento anni?”.
“Se non mi sbaglio, sono cinque i centenari della casa di riposo: Mino il ballerino, il forzuto Matteucci, Mafalda la soubrette, il fantasista Maurice, e il trasformista Cavalier Martina”.
“Quello del famoso varietà “Piuttosto vado a Londra?”.
“Proprio lui”.
“Accidenti. Era una vera celebrità ai suoi tempi”.
“Può ben dirlo. E qui c’è anche Binetti, il suo allievo prediletto”.
“Era il suo fidanzato?”.
“Questo non credo”.
“Eppure correvano voci a quel tempo”…
“Messe in giro da qualche invidioso”.
“O da qualche imbecille”.
“Penso comunque che non sia necessario convocare anche i centenari”…
“Direi di no”.
“Quanti artisti vivono qui?”.
“Più o meno un’ottantina”.
“Quanti di questi, secondo lei, sarebbero ancora in grado di stare in scena?”.
“Questo proprio non lo so”.
“Come non lo sa? Ma se il Direttore Plenipotenziario ha detto che allestite regolarmente degli spettacoli nel vostro teatro!”.
“Non proprio regolarmente, solo ogni tanto, quando qualche artista ha un’idea, prende l’iniziativa, e coinvolge qualche altro collega. E comunque c’è una bella differenza tra uno spettacolino fatto in casa per amici e parenti, e una tournée vera e propria davanti a un pubblico che paga il biglietto”.
“Che artisti ci sono?”.
“Un po’ di tutto. In maggioranza musicisti e cantanti di musica classica. Operistica per lo più. Ma ci sono anche cantanti di musica leggera, alcuni hanno partecipato al Festival di Sanremo”.
“Hanno vinto?”.
“No”.
“E poi?”.
“E poi ci sono ballerine e ballerini, mimi, attori, burattinai, marionettisti, prestigiatori, acrobati, giocolieri. Ci sono anche alcuni “fenomeni”, di quelli che piacciono a lei”.
“Tipo donne barbute?”.
“Anche uomini tatuati”.
“I tatuati no. Non fanno più sensazione come una volta. Adesso tutti sono tatuati. Persino le donne”.
“Ma il nostro uomo è tatuato dappertutto, non ha un centimetro di pelle libera”.
“Non mi interessa. E’ pieno di deficienti uguali. A cominciare dai giocatori di calcio”.
“Abbiamo anche una nana”.
“Non so che farmene dei nani”.
“E un uomo elettrico”.
“Sarebbe?”.
“Si fa passare delle scariche di corrente attraverso il corpo”.
“Non lo voglio. Spaventerebbe i bambini. Piuttosto, come mai ci sono anche musicisti e cantanti lirici in una casa di riposo riservata agli artisti di varietà? L’opera lirica non è un varietà”.
“In effetti era nata come casa di riposo solo per artisti di varietà, in memoria di quel briccone di Bricconcioni. Poi, per necessità –soprattutto economiche, diciamo- ha finito per ospitare anche una varietà di artisti”.
“Ah, ah! Divertente il gioco di parole”.
“Non è un gioco, è la verità”.
“Ma mi diceva delle sue perplessità. Sono solo per via dell’età?”.
“Diciamo che l’età è il motivo principale. Specialmente per i ballerini e per gli acrobati. La vecchiaia, la mancanza di allenamento, e gli anni di lontananza dalle scene, potrebbero rappresentare per molti di loro l’impossibilità, di fatto, di tornare ad esibirsi in uno spettacolo di un certo livello. E comunque, c’è anche dell’altro”…
“Sentiamo”. L’impresario stirò le gambette e si mise più comodo.
“Anche ammettendo la possibilità di trovare degli artisti disponibili, e ancora in discreta forma, chiediamoci se davvero ha un senso riproporre uno spettacolo del genere al giorno d’oggi. I gusti del pubblico sono cambiati, molto cambiati, com’è cambiato il mondo del resto, dai tempi in cui noi andavamo in scena. Oggi vanno di moda altri spettacoli, c’è la realtà virtuale, il pubblico è distratto da nuovi miti, celebra altri riti, e i suoi eroi, anche nel mondo dello spettacolo, sono molto diversi da noi, e da quello che noi abbiamo, nel bene o nel male, rappresentato. E poi il pubblico vuole vedere dei giovani in scena, possibilmente anche belli, bellissimi. Non credo che gli piacerebbe guardare uno spettacolo fatto tutto da vecchi, taluni vecchissimi, artisti. Potrebbe non interessare a nessuno. E noi rischieremmo non solo il fallimento dell’impresa, ma anche il ridicolo e probabilmente il patetico. Perché? Chi ce lo fa fare? A che scopo? No, il nostro tempo è passato, prendiamone atto con serenità. Le nostre glorie le abbiamo avute, non dobbiamo dimostrare più nulla. Ora è meglio, io penso, che continuiamo a vivere di ricordi. E i ricordi, diceva il poeta, sono come i sogni belli, che ti lasciano la bocca impastata di zucchero. Non crede anche lei?”.
Il Cavalier Giancamillo Leonfoschi rimase un attimo in silenzio. Un attimo lungo un amen. In fondo c’era del vero nelle parole dell’ottimo presentatore.
“Tutto vero, signor Ricky, ma il tempo che passa può fare a pezzi ogni ricordo –disse quando riprese a parlare- che è quello che basta per non prendere la vita troppo sul serio. Tanto non ne usciremo vivi. Questo per dire che il rischio c’è, inutile negarlo. Però, se mi permette, quello che rischia sono io. Rischio i denari che investo in questa impresa e, cosa ancora più importante, mi gioco la mia reputazione, che, mi consenta, non è proprio poca cosa. Ma voi –e lo guardò fisso negli occhi scagliandogli lampi ipnotici- voi, dico, voi vecchi artisti in pensione, voi arnesi in disarmo, voi pagliacci grotteschi alla deriva, voi cosa avete da rischiare? Lasci che glielo dica io. Voi zingari e vagabondi non rischiate nulla. Anche dovesse andare male –cosa che non accadrà, glielo assicuro, so fare il mio mestiere, difficilmente sbaglio una mossa- dicevo, anche se dovesse andare male, voi non ci rimetterete nulla. Perché siete ormai in quella invidiabile condizione dell’esistenza in cui non avete più nulla da perdere. Nulla ma proprio nulla. Al contrario, rischiate solo di tornare al successo, e di ricevere, proprio quando non li aspettavate più, gli ultimi applausi della vostra vita artistica. Che saranno i più belli e i più preziosi, proprio perché gli ultimi. Quelli che ricorderete per sempre. Proprio com’è successo agli artisti di Gardenia. Si ricorda Gardenia? -Ricky annuì stirando un piccolo sorriso- Sono venuto a resuscitarvi e a prolungarvi la vita, Monsieur Ricky. Dovrebbe abbracciarmi!”.
Ricky non lo abbracciò. Anche perché lo aveva visto più sudaticcio di prima. E gli uomini sudati gli facevano orrore. In compenso si era quasi convinto. Ma fece di tutto per non mostrare segni di entusiasmo. Anzi. Decise, freddamente, di frenare e prendere tempo. Troppe volte l’entusiasmo gli era costato caro.
“Ho capito –disse alzandosi, e si lisciò le code del frac come a lasciar intendere che il tempo del colloquio era finito- l’offerta è lusinghiera e la ringrazio anche a nome dei colleghi. Le assicuro che la prenderemo seriamente in considerazione valutando attentamente tutti i pro e tutti i contro. Più i contro che i pro. Mi lasci del tempo. Prima di darle una risposta devo parlare con i nostri artisti, capire chi se la sente e chi no, chi è favorevole e chi è contrario –siamo in una casa di riposo a gestione democratica- chi è disponibile e soprattutto chi è ancora in grado di esibirsi con dignità. Fatta questa prima verifica, e ammesso che sia positiva, toccherà a me, che sarò anche –inevitabilmente- il regista dello spettacolo, sempre che lei non abbia qualcosa in contrario (tirò un’occhiataccia all’impresario, questi alzò le mani in segno di resa), toccherà a me, dicevo, scegliere gli artisti che ritengo i migliori e i più idonei per questo progetto. Bisognerà mettere insieme un cast convincente, variegato nei generi ma di impianto omogeneo. Non sarà facile. Molti artisti sono troppo vecchi o troppo matti. O ambedue le cose. Alcuni anche –non dovrei, ma mi lasci dire- troppo scarsi”…
“Sono nelle sue mani”.
“Farò il possibile e l’impossibile”.
“Naturalmente avrà carta bianca per il cast”.
“Questo faciliterà le cose”.
“Quando pensa di darmi una risposta?”.
“Diciamo nel giro di un mesetto”.
“Va bene. Di quanto tempo pensa poi di avere bisogno per le prove?”.
“Trenta, quaranta giorni, come minimo”.
“Ha in mente un luogo dove farle?”
“Dato che tutti gli artisti vivono qui, e hanno anche una certa età, penso che potremo utilizzare il teatro della casa di riposo. E’ perfetto. E credo che il nostro Direttore Plenipotenziario non avrà nulla in contrario. Anzi si divertirà moltissimo”.
“Magari vorrà tornare in scena anche lui!”.
“Chissà”.
“Allora ci sentiamo il mese prossimo”.
“Senz’altro”.
Il celebre impresario e l’ottimo presentatore si strinsero calorosamente le mani guardandosi negli occhi con uno sguardo complice. Poi si abbracciarono vigorosamente tenendosi stretti l’un l’altro per qualche lunghissimo minuto, e si baciarono tre volte sulle guance come fanno i nomadi e gli artisti. A Ricky sembrò che l’impresario avesse tentato di baciarlo all’angolo sinistro della bocca. Faticò a prendere sonno quella notte. Vedeva il suo nome scritto a caratteri cubitali sui manifesti, sentiva sul viso il calore dei riflettori e nelle orecchie il fragore degli applausi. Accese la radio. Usciva una musica idonea per un crepuscolo.

(1- continua)

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La copertina del romanzo di Roberto Bianchin "Ultima Turnè"…

Il giorno che Oreste andò al pianoforte