Il figlio

Il settimo capitolo de «L’anno più difficile della mia vita»

Si avvia verso la conclusione la pubblicazione per capitoli del romanzo inedito di Giovanni Camali «L’anno più difficile della mia vita». Il settimo capitolo, «Il figlio», segue al sesto «Il voto», al quinto «Il destino», al quarto «La degustazione», al terzo «Il diario», al secondo «Lacrime vuote» e al primo «Il trench di Chloé». Li potrete comodamente rileggere tutti -solo per questa occasione gratuitamente- richiamandoli con il loro titolo dalle pagine del nostro archivio elettronico. Tutti i mesi, in esclusiva per «Il Ridotto», un nuovo capitolo di questa storia che appassiona un numero sempre crescente di affezionati lettori: le avventure intriganti di una giovane psicologa francese in crisi di identità alle soglie dei trent’anni.

Grazie a Dio Gloria mi tolse per un po’ di tempo dagli impicci. Decise di partire per una vacanza con l’uomo «merda» che in questo frangente era stato riabilitato a uomo Umberto, ma sempre di uomo si parla e per non essere proprio perfida, dirò che si parla quantomeno di un uomo problematico. Comunque, almeno dai messaggi che ricevevo intuivo la sensazione di un sole splendente e dei colori dell’arcobaleno che mi facevano ben sperare per il loro futuro.

Io, pur essendo finita in una girandola di emozioni, avevo ben chiaro il mio focus: unica priorità, il mio bambino/a e il suo futuro, ma pur essendo super ottimista, non avevo fatto i conti con le difficoltà quotidiane. Ormai non potevo più nascondere la pancia, non che lo volessi in realtà, ma il mio lavoro mal si sposava con il mio stato e con molto tatto il mio fidato datore di lavoro, Massimo, mi fece capire che dovevo mettermi in maternità, ma quella forzata! Il messaggio di Massimo era arrivato forte e chiaro quindi mi recai in banca e feci quattro conti. Non ce l’avrei potuta fare a sostenere tutte le spese in arrivo, forse per un anno si, ma poi?!

Ero già al sesto mese di gravidanza e i miei genitori continuavano a pregarmi di tornare a casa. Non avevo fatto loro menzione di questa possibilità nonostante fosse un pensiero che quotidianamente mi accompagnava, ma in cuor mio, non volevo arrendermi. L’apparente dimenticato Alberto rappresentò in quel periodo una vera ancora di salvezza, perché mi mise nelle condizioni di poter decidere del mio futuro con tranquillità sostenendomi psico-fisicamente. Non so cosa gli passasse per la testa e perché fosse così carino, so solo, che si avvicinò in modo sincero e non solo mi risultò difficile allontanarlo, al contrario anzi, incominciai ad apprezzarne sempre di più la compagnia.

Non è che mi riempisse d’attenzioni, ma quando ero con lui mi sentivo protetta e perfettamente a mio agio. La cosa che letteralmente mi faceva impazzire era il modo semplice ed elegante con il quale mi corteggiava, mai scontato e mai con una volgarità. La mia gravidanza? A detta sua: Un dono di Dio. Effettivamente Dio, mi aveva tolto Marco e la voglia di vivere ma contemporaneamente mi aveva regalato la nostra progenie, quindi, come potevo contraddirlo? Nonostante provassi un indubbio interesse nei confronti di Alberto, non gli spalancai le porte, ma mi limitai invece a trattarlo da amico e lo lasciai fare.

Proprio questo approccio mi permise di conoscerlo più serenamente e senza condizionamenti emozionali; d’altronde ero già fin troppo incasinata per permettermi il lusso di intraprendere una avventura in un momento così delicato. Ci vedevamo comunque piuttosto spesso, andavamo a fare la spesa assieme, mi aiutava con i pacchi e a volte persino cucinava lui, poi a fine serata, con la sua eleganza mi dava una carezza, un bacio e se ne andava a casa propria. Non sto parlando del principe azzurro, ma tutto sommato forse anche si!!! Almeno volevo crederci! Deve essere stato proprio un principe, perché effettivamente non l’ho mai visto lavare un piatto.

Non che lo pretendessi, ma sai com’è, un lavello pulito e una cucina già ordinata quando vai in cucina la mattina appena alzata dal letto sono proprio una bella iniezione di gioia e un buon giorno concreto. Ma noi donne francesi queste cose le capiamo ed ecco perché amiamo la lavastoviglie! A un mese circa da quando Gloria mi aveva fatto la sua dichiarazione erano cambiate così tante cose che se mi fossi seriamente messa a ricordare il mio ultimo anno mi sarei messa a piangere a dirotto. Era stato per me un anno devastante e sembrava non riuscissi a trovar pace, oltretutto, non c’era giorno che come un martello pneumatico il mio pensiero di dover o voler tornare a Parigi mi perseguitava. Era una sensazione di stallo sgradevolissima, un chiodo fisso, un quesito al quale più pensavo e meno trovavo risposte soddisfacenti.

Il venti giugno, Alberto mi invitò ufficialmente a teatro e poi a cena. Si era procurato due biglietti per il teatro La Fenice, saremmo andati a vedere un concerto di Keith Jarret, Jack Dejonhette e Charlie Haden, piano, batteria e contrabbasso! Ero preoccupata perché non sapevo se avrei apprezzato il genere ( jazz ), invece mi dovetti ricredere; quando Jarret fece l’assolo del Koln concert ebbi una esperienza emotiva indescrivibile, sentii la forza di quelle note uscire dal pianoforte con la stessa intensità di un jet che supera la barriera del suono, così intense, da spaccare il silenzio. Galleggiavano sospese nell’aria per poi spegnersi come la cometa dei fuochi d’artificio che cadendo dal cielo dopo tutto quel bagliore traccia nel buio linee di luce per lasciare nuovamente il giusto spazio al silenzio e all’immobilità.

Mi commossi davvero e seppure il pianista mi fosse risultato antipatico a pelle, gli dovevo riconoscere questa capacità: sapeva emozionare e non credo solo me; un gigante nel saper gestire i due mostri sacri, suono e silenzio! Era da tanto che non mi sentivo così serena e appagata, e la serata non era ancora finita. Ci attendeva la cena e a sua insaputa fui accontentata nella scelta. Non andammo tanto lontano, anzi, appena giù dagli scalini del teatro, alla destra, un tavolo ci aspettava fuori dal plateatico del ristorante Antico Martini, era riservato a nome Vasquez. Perché fuori? Perché in quel ristorante hanno l’abitudine di posizionare uno o due tavolini all’occorrenza sotto la scala di pietra che porta agli alloggi del piano superiore. Quell’angolino porta con sè la magia degli sfarzi di una Venezia antica togliendoti dalla ressa del turismo di massa e restituendo solo emozioni. E fu una serata davvero indimenticabile. Era inevitabile che l’occhio cadesse sul nome della prenotazione: Vasquez. Io, Alberto lo conoscevo come Alberto e non eravamo mai entrati in confidenza per parlare del nostro passato, peraltro lui sembrava piuttosto chiuso ed imbarazzato nel parlarne. Lo capii quando gli chiesi se per caso fosse spagnolo visto il cognome, ma glissò rapidamente dicendomi che era uruguagio di Montevideo.

La cena, la conversazione, tutto fu meraviglioso e tornammo verso casa mano nella mano, ma quando arrivò il momento di decidere se farlo salire non me la sentii , lo baciai frettolosamente e lui tenendomi forte al petto mi disse: «non ti preoccupare, ti capisco, ho solo una grande preoccupazione e mi vergogno a parlartene solo ora, ma ci saremmo rovinati la serata se te ne avessi parlato prima». Alberto, dimmi cosa succede. «Sto per partire per un viaggio di lavoro e sicuramente non ci sarò per la nascita del bambino.» Mi sentii spiazzata e le gambe mi tremarono. Mi aveva detto che di lavoro faceva lo skipper ed effettivamente il periodo estivo poteva essere quello giusto per un ingaggio, ma proprio era lontano dai miei pensieri.
Mi limitai a chiedergli: «dove vai di bello?». «Mi imbarco dopodomani per la Grecia, ho l’aereo per Atene domani alle 14, poi sarò a disposizione dei proprietari, e sai come sono i ricconi, un po’ capricciosi”!

Le ultime parole non le avevo nemmeno sentite perché ormai ero entrata in «modalità femmina», quindi tutto quello che avevo fatto per proteggerlo dall’ostracismo che gli avevo imposto negli ultimi mesi relativamente al nostro possibile rapporto di coppia andava letteralmente rivisto. Della serie: quello che le donne non vogliono! È ciò che ogni donna non vuole quando è lei a deciderlo, ma mai e poi mai potrà accettare che un lui qualunque dica: no grazie! Era pur vero che Alberto non aveva detto no, ma per me doveva essere un sì anche se gli avevo fatto capire il contrario da almeno due mesi. Cosa facciamo noi donne in questi frangenti? Mi vergogno a dirlo, ma siamo un po’ tutte uguali, prima li allontaniamo con indifferenza e poi facciamo leva sul senso di colpa, quindi: «Beh, che dire Alberto, complimenti, cosa posso altro dire? ( pausa lunga ). Il destino vuole così, quindi, addio? «No», rispose lui immediatamente ed io replicai con: «sai che abbiamo bisogno di te!»

Gli diedi un ultimo bacio, ma questa volta carico di sentimento e lo salutai con un “adieu”. Salii le scale a passo sostenuto e non mi voltai più indietro, adesso ero entrata in «modalità depressione», d’altronde non è che le cose mi girassero per il verso giusto. Mi buttai a letto e accarezzandomi la pancia intrapresi un fitto dialogo accompagnato da lacrimuccia con il mio piccolo esserino. Devo chiamarlo esserino! Mi sono rifiutata di sapere il sesso, ma qui, tutti i nomignoli per definire la prole sono al maschile: nascituro, bambino, piccoletto, ecccccc, l’unico era essere, ma è orribile quindi, è diventato esserino e pazienza. Comunque gli ho dedicato due parole. Non so se due parole sono meglio di uno sguardo, ma so per certo che come ci vedremo, ci capiremo. E sarà per sempre amore mio!

La serata finì così tra gioia, tristezza e malinconia sulle note di simple twist of fate. Era Bob Dylan che mi accompagnava nel sonno.

(7-continua)

Keith Jarret (fonte: wordpress.com).

Il figlio