Elefanti & Briganti
Ogni tanto si sentono strepitare, le varie associazioni animaliste del pianeta, contro l’uso (loro in verità parlano di «disumano sfruttamento») degli animali, in primis elefanti, tigri e leoni, nei circhi equestri. Tema delicato, su cui è comunque legittimo discutere, e altrettanto legittimo è avere — come succede — pareri discordanti. Non accade invece mai, almeno alle nostre latitudini, di sentire gli stessi strepiti, da parte delle stesse (e spesso benemerite, se non altro perché sollevano il problema) associazioni animaliste, riguardo a un fenomeno ben più drammatico e più grave: la strage degli elefanti.
Vero che succede in Africa e non a Pescasseroli. Cioè lontano da noi. Lontano dagli occhi e lontano dal cuore, come diceva una vecchia canzone. È che, lontano o vicino che sia, purtroppo il dramma non cambia.
In Africa vengono uccisi trentacinquemila elefanti l’anno. Qualcosa come cento elefanti al giorno. Vengono uccisi dai bracconieri nei modi più feroci: fucili, kalashnikov, granate, persino avvelenati dal cianuro buttato nelle pozze d’acqua dove vanno ad abbeverarsi. In questo modo ne sono morti più di mille l’estate scorsa nel parco nazionale dello Hwange, in Zimbawe.
Li uccidono per le zanne d’avorio. Quelle zanne che hanno permesso loro di sopravvivere per millenni, e che adesso sono diventate le loro condanne a morte. Da quando — racconta Martin Fletcher in un angosciante reportage sul mensile britannico Prospect, pubblicato in Italia dal settimanale Internazionale — le organizzazioni criminali internazionali, i gruppi terroristici, e le milizie ribelli, si dedicano al commercio del cosiddetto oro bianco da cui si ricavano gioielli, monili, braccialetti, pettini, strumenti musicali, manici di posate, scacchi e palle da biliardo.
È un affare che frutta vari miliardi di dollari l’anno, comporta pochi rischi e garantisce altissimi profitti: basta pensare che per un paio di zanne i bracconieri sono pagati più di quanto potrebbero guadagnare legalmente in molti anni di lavoro. I principali responsabili del traffico illegale di avorio sono Kenya, Uganda, Tanzania, Malesia, Thailandia, Vietnam, Filippine e Cina. Li chiamano «la banda degli otto».
Non risulta che le varie associazioni animaliste del pianeta, spesso così attive nelle proteste davanti ai tendoni dei circhi, siano mai andate a manifestare davanti alle sedi delle ambasciate di questi paesi, contestando loro l’orribile e impunita strage degli elefanti.
Eppure i danni sono enormi, scandalosi e irreversibili. Basta pensare che all’inizio dell’Ottocento vivevano in Africa più di venti milioni di elefanti. Un secolo dopo il loro numero era già sceso a cinque milioni. Alla fine degli anni Settanta erano un milione e trecentomila. Oggi se ne contano ufficialmente tra i quattrocento settantamila e i seicento novantamila, ma molti studiosi ritengono che in realtà non siano ormai più di trecentomila. I gruppi più numerosi sono in Botswana (centoventi mila) e in Tanzania (novantamila).
Se il massacro andrà avanti (e non c’è motivo di pensare il contrario, dato che la maggior parte degli Stati africani non ha abbastanza risorse per contrastare il bracconaggio e difendere gli animali), c’è il rischio che gli elefanti selvatici africani possano scomparire del tutto nei prossimi dieci anni. Allora resteranno davvero solo quelli imprigionati nei circhi e negli zoo.
Forse sarebbe ora che le varie associazioni animaliste del pianeta si svegliassero, e cominciassero a fare le battaglie che contano davvero. ★