Effetto bar

A metà degli anni sessanta, all’albergo del Leon d’Oro, in piazza a Pieve di Soligo, nel cortile c’era una gabbia stile voliera con dentro una scimmietta che il mio papà adorava stuzzicare, tra le indignate proteste dell’intera famiglia, facendola berciare furiosamente incazzata, aggrappata alle sbarre.

C’era anche un tavolo da biliardo, in una sala in fondo al bar. Al biliardo c’erano spesso dei giovinastri male assortiti, capelli lunghi e pacchetto di sigarette sotto la manica della maglietta, avvolti perennemente in una nuvola turbinante di fumo di sigarette pestilenziali, bestemmie infernali, colpi secchi di stecche e palle.

Più ancora della scimmietta, credo che siano questi teppistucoli della pedemontana ad avermi inculcato una certa circospezione nell’introdurmi nei pubblici esercizi che mi siano ignoti. Sarà anche un pregiudizio, ma prima di ordinare al banco voglio vedere che gente che c’è.

Così, da un po’ di anni, ho cominciato a rivedere le mie preferenze musicali basandomi principalmente sull’effetto bar. Supponiamo che, verso mezzogiorno l’una, entro in un bar di Zocca, o Reggio nell’Emilia, o Firenze, per bere un analcolico. E lì, seduto a un tavolo o in piedi al banco, c’è un signore scapigliato male in arnese, avvolto da un maschio afrore di testosterone, acidi capronico e butirrico, la camicia stantia di emmesse e glengran, l’alito alla soppressa all’aglio, oppure finocchiona, che si è sicuramente appena svegliato ma già sbraita e conciona sull’intero mondo, arringando una striminzita folla di pensionati prossimi al pranzo.

Che faccio?

Vado via!

Cerco magari un posto un po’ meglio, dove ci sia qualcuno che non è vestito da occhei corrall o da divorziato costretto a dormire in macchina per pagare gli alimenti, che abbia magari meno ormoni ma più dimestichezza con il silenzio.

Dato che nell’ultimo ventennio la politica e lo spettacolo si sono inestricabilmente fusi, ho cominciato ad applicare il pregiudizioso e pregiudizievole metodo effetto bar anche al variegato mondo della conduzione politica.

Mettiamo che sono a Milano o anche a Barcellona Pozzo di Gotto, all’eppi auar, entro in un bar tutto cristalli e dentro c’è un tipino riportato, un anziano arzillo di mezza statura in doppiopetto cravattato gemellato, immerso in una nuvola di lavanda inglese, che racconta incredibili avventure che sembrano panzane e invece sono vere, o almeno tutti le credono tali. Che faccio? Ovvio: mi fermo e cerco anche di farmi offrire da bere, che tanto il tipo è giusto. O supponiamo che entro in una pasticceria di Varese e c’è un altro anziano signore secco e lungo, di una tacceriana algida eleganza, ma che non dà confidenza neanche alla commessa? Compro anche le paste! E invece in una paninoteca di Bettola, seduto in un angolo c’è un signore ragioniere triste e senza capelli, in giacca di fustagno e pantaloni di velluto a coste, che legge assorto e pensoso e mi viene da offrirgli un’altra birra, via. E supponiamo che entro al tramonto d’agosto in una sfavillante coctelleria sulla marina dove sono ormeggiati degli iot strafichi e c’è uno con una giacchetta aragosta, un altro con la fuoriserie parcheggiata fuori e uno strabiliante ciuffo che gli casca da tutte le parti sopra la testina abbronzata e il completo da ammiraglio, e con loro ce n’è un altro stile giorg clunei in sahariana che se la spassa da matti, più un anziano giovanotto alla clinton (nel senso del presidente americano, non del vinello veneto ormai fuorilegge) e un azzimato moretto in ritardo con le battute — che si vede, tra martini e arachidi, che questi due ultimi vogliono far parte del terzetto, ma gli manca la figaggine — che faccio? Ma gli offro un giro di americani, perdinci, tanto qualcun altro che paga lo hanno già trovato loro.

Ah, a Genova ci sono andato in gita da militare recluta rana, ero non più tanto giovane ma ancora inesperto, però non ci permettevano di andare al bar… ★

Effetto bar