Bartabas sul Golgota
a passo di flamenco

Lo spettacolo attualmente in tournée in Francia

L’ultima, mistica, affascinante e coltissima produzione del grande cavallerizzo francese inventore del teatro equestre, insieme al danzatore spagnolo di flamenco Andrés Marin. Una liturgia equestre possente e misteriosa a metà fra il sacro e il profano, con i canti gregoriani di Tomàs Luis de Victoria, l’iconografia dei mistici spagnoli del XVI secolo, e un flamenco depurato dal folclore e denudato fino all’essenzialità della purezza.

PARIGI — Un arrogante profumo d’incenso che pizzica le narici attraversa la penombra della scena. Un chierichetto nano dai boccoli d’oro fa la questua tra il pubblico e ravviva le fiamme, con le monetine che raccoglie, di un candelabro elettrico. Con l’incedere lento e solenne di un rituale celebrato in un’antica cattedrale, il cavaliere che si è fatto centauro, che è vestito di nero, con un cappuccio nero, e che cavalca un cavallo nero, avanza a passi lenti sulla sabbia nera stesa sul palcoscenico del Théatre du Rond Point. Trascina un penitente, anch’egli vestito di nero, che si flagella, inginocchiandosi, con la coda del cavallo.

Comincia così Golgota, l’ultimo spettacolo di Bartabas, una liturgia equestre possente e misteriosa, a cavallo – è proprio il caso di dirlo – tra il sacro e il profano, attualmente in tournée in Francia, che il leggendario cavallerizzo francese Clement Marty in arte Bartabas ha realizzato insieme al danzatore spagnolo di flamenco Andrés Marin, basandosi sull’iconografia dei mistici spagnoli del XVI secolo e le composizioni sacre di Tomàs Luis de Victoria (1548-1611), un prete cattolico che è stato uno dei compositori più interessanti del Rinascimento.

Due strumenti antichi, un corno e un liuto (Jean Tubéry e Marc Wolff), accompagnano la voce penetrante del sopranista Christophe Baska, mentre il nano (l’attore Pierre Estorges) marca il tempo del ritmo, e il centauro e il ballerino si incrociano in una danza strana e mistica, tra Sanctus, Alleluja e Agnus Dei, e luci sulfuree che sembrano rubate al Caravaggio, dando vita a una serie di quadri di una bellezza estetica impressionante, quasi come fossero altrettante stazioni di un’inquieta e spettacolare via crucis.

È da qualche anno che Barbabas non si accontenta più dello spettacolo annuale della troupe nel suo teatro equestre di Fort d’Aubervilliers (l’ultimo, lo scoppiettante Calacas, è andato in scena per tre stagioni), né delle evoluzioni dei suoi cavalieri nella reggia di Versailles, ma cerca nuovi stimoli in teatro, nuovi linguaggi, nuovi spettacoli. Prima assieme al danzatore di buto Ko Murobushi (spettacolo portato anche in Italia da Gigi Cristoforetti al festival della danza di Torino), poi con la coreografa Carolyn Carlson, ora con il danzatore sivigliano di flamenco Andrés Marin, cui Bartabas fa il controcanto montando sul palco del teatro quattro dei suoi cavalli (i fidi Horizonte, Le Tintoret, Soutine, Zurbaràn), e l’asino Lautrec.

«È la voglia di non arrendersi alla routine, la voglia di andare a vivere altrove altre avventure», spiega. Bartabas, che ha passato il mezzo secolo, dice di essere arrivato a un’età in cui ama confrontarsi con altri creatori, quasi per ingaggiare una sorta di sfida: «esplorare territori nuovi mi obbliga a espormi maggiormente ai rischi», racconta a Sophie Nauleau nel testo del programma di sala. La Spagna, dice, è stata la sua prima passione, e il suo incontro con la cultura di questo paese è stato fondamentale per la nascita di Zingaro, la sua compagnia equestre.

«Ma mi ero sempre imposto di non toccare il flamenco – continua – perché non volevo piombare nel folklore. È successo però che si è fatta avanti una nuova generazione di danzatori, di cui fa parte Andrés Marin, che hanno ripulito il flamenco della sua immagine e dei suoi luoghi comuni, lo hanno spogliato di tutti gli orpelli e di tutto quanto c’era di artificioso. E tutto questo d’un tratto mi ha colpito. Ho trovato qualcuno con cui far uscire quello che cerco nel flamenco come nell’arte equestre: un approccio fondato sul corpo, sull’ascolto, sul ritmo».

«Non mi ero sbagliato – aggiunge – quando ho messo Andrés Marin davanti ai canti gregoriani di Tomàs Luis de Victoria, e lui li ha subito interpretati in un modo ritmico. Questo è diventato ancora più appassionante quando gli ho chiesto di togliersi le scarpe e di danzare a piedi nudi sulla sabbia, ed è spuntato improvvisamente il bisogno, la ricerca, di una musica silenziosa, come se si ascoltasse il tempo senza sentirlo. E’ stato il momento più stupefacente dello spettacolo».

L’insieme, in effetti, che il pubblico che affolla il teatro in ogni ordine di posti (hanno venduto anche gli scalini) segue in un silenzio religioso, anch’esso quasi mistico, è di grande fascino e bellezza. Con anche un pizzico di humour in un paio di frangenti. La standing ovation finale, meritata. Restano, a voler essere pignoli, qualche smagliatura di leziosità, qualche ombra di lentezza, qualche picco di retorica. Ma sono dettagli, quasi irrilevanti, di uno spettacolo sublime. ★

Voto: 8,5

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