Altro Incubo
in Quarantena

Gli ef­fet­ti de­va­stan­ti del­la reclusione
non danno tregua

Ommioddio l’ho fatto di nuovo! E anche peggio: ieri sera tre Negroni (formato famiglia) e dopo, in preda a una frenesia incontrollabile, cinghiale marino alla grossetana. Il cinghiale è marino non perché nuota nel mare ma poiché viene dall’Elba: dove un caro amico eponimo li cattura a sprezzo del pericolo senza neanche allontanarsi da casa perché essi lo agguatano già in giardino. Saranno state le olive taggiasche o la conserva o fors il buché guarnito maremmano: il cinghiale marino ha galoppato tutta la notte dentro e fuori di me. E ho avuto un altro incubo.

COSMOPOLI — Finita da un trimestre la Terza Ondata, non siamo neanche più capaci di uscire di casa; così, per i superstiti, il Nostro Amato e Caro Lider ha organizzato in Palazzo Ducale un Ballo Mascherato per tutti i Veneziani. Evviva! (insomma). E così ci siamo tutti, tranne quelli che non se lo meritano (quelli che andavano a correre e quelli che andavano in spiaggia da soli, per esempio) nella Sala del Maggior Consiglio e su e giù per le scalinate, e dentro il cortile e la Scala dei Giganti e affacciati dentro e fuori da tutte le balaustre.

Mi sono messo il Costume da Casanova, quello Rosa della Sartoria Lucerna, perché così c’era scritto sull’invito: «Di rigore abito del Settecento». E poi ho scoperto appena arrivato che siamo tutti vestiti da Casanova o da Colombina, una panoplia e un florilegio di Casanovi e di Colombine: neri, gialle, verdi, azzurre, rosa, grandi, piccoli, magre, grassi, rotonde, spigolosi, Casanovi senza parrucca e Colombine con la barba.

Li conosco tutti! Ci sono i Gemellini Casanova, c’è il Casanova di Gianni De Luigi, c’è il Casanova Principe Maurice Agosti di Durazzo, c’è anche Giovanni Dell’Olivo che sta per suonare (vestito da Casanova) ci sono tantissimi Casanovi e Colombine dall’Avogaria (insegnanti studenti direttore); e poi attori, figuranti, comparse, interpreti, biadaioli, fotocopisti, gioiellieri, professori, commesse dei supermercati e dei negozi, programmatori, assicuratori, marinaie e operatori ecologici e via e via e via che non avrei mai creduto, ma invece sì!

E c’è il fingherfud e niente spritz (per fortuna) e bibite varie e un banchetto con le fritole e uno di vin brulè, ma io non tocco niente perché il cinghiale mi ha lasciato un’arsura inestinguibile: berrei invece volentieri un bel bianco fresco, ma c’è solo birra anal-colica, acqua tonica tiepida con il gin, e cocacola calda con il rhum, dentro dei bicchieri di plastica con la cannuccia fluorescente.

C’è qualcosa che non va, e me lo sento dentro come un brutto presentimento (ma molto brutto) e mi guardo in giro e non trovo né la Mia Morosa di San Marco né l’Altra: e quest’assenza mi rincuora perché altrimenti mi sentirei come di camminare sulle uova se ci fossero tutt’e due (e anche forse o l’una o l’altra) perché al contrario senza entrambe ambedue magari questa sera vado delle buone. Quindi non sono Loro, a darmi questo senso di pericolo.

E invece proprio, c’è questo presentimento di qualche cosa che non va. E così, proprio mentre che sto parlando con una Colombina che sembra avere una cascata di diamanti da un milione di carati al posto degli occhi, ecco che il presentimento diventa realtà.

Da in fondo della sterminata Sala del Maggior Consiglio, scivolando sul meravigliosamente incerato terrazzo alla veneziana incede come se camminasse a levitazione magnetica, Elisabetta Teotochi Marin Albrizzi, in un profluvio di boccoli neri come il carbon, che devono essere una parrucca, visto che sono passati duecento e soffia anni dall’ultima volta che li ha avuti così.

E con la scollatura poderosa davanti e anche di dietro (lo vedo con l’occhio panoramico degli incubi) la tenutaria di salotti letterari si dirige proprio verso di me, mentre tutta la folla intorno si divide come le acque mosaiche al suo passaggio.

Ecco! È arrivata: e guardandomi fissa negli occhi mi dice, a me, ma la sentono tutti «Una cosa stranissima!» e si accascia tra le mie braccia.

Oh benedetta! Ma c’è un pugnale, uno stiletto, uno stocco, conficcato nella sua nuca. O povero me! E senza che la mia volontà nulla possa, estraggo la lama dalla testa della sventurata, e un fiotto poderoso di sangue e lacrime e rubini inonda me, la defunta, e tutto il pavimento intorno. Ommioddio!

Ecco il presentimento in tutta la sua evidente onirica realtà.

Arriva l’Ispettore Manetta e mi ghigna: «Ahi ahi ahi finalmente Colferai, adesso sei proprio nei guai!» e in quella irrompe sbuffando il Gran Mogol delle Guardie Metropolitane, e grida: «Presto presto, arrestatelo!» «L’ho appena fatto!» risponde l’Ispettore Manetta. E il Gran Mogol delle Guardie Metropolitane: «Τρέξε! Τρέξε! λαγουδάκια μου! Τρέξε!»

E così corriamo tutti come leprotti: corre il manipolo delle Guardie Metropolitane; corre il Gran Mogol in grande uniforme; corre l’Ispettore Manetta; e corro anch’io ammanettato; e poi corrono anche tutti i giornalisti e i fotogiornalisti (che li conosco tutti e sono dei bravi ragazzi egli voglio bene ma non posso fare l’elenco anche per ragioni di deontologia professionale) e corrono tanti anche dei presenti che credono che sia l’inizio del serpentone: A-E-I-O-U ipsilon, fio maravilha nos gostamos de você tetetetetetete! Brigitte Bardot Bardot, na fila do cinema todo mundo se afogou! (Ay Ay Caramba).

Finché con il Dito Indice accusatorio proteso il Nostro Amato e Caro Lider interrompe la corsa sfrenata imponendo imperioso: «La pena da eseguirsi all’alba è decretata: ῥαφανίδωσις a oltranza finché qualcuno non dice «a bastanza»!». E fa anche la sua figura lì in piedi incorniciato dai finestroni gotici, con tutti quei capelli selvaggi.

Non so perché tutti hanno sta mania di parlare in greco, ma so benissimo qual è la pena che si usava in Atene ai tempi antichi per i fornicatori colti in fragrante flagranza: «Ma io…» tento di difendermi. «Tasi Colferai!» m’intima il Nostro Amato e Caro Lider: «Ormai! Non ti salverai!»

E così riprende la corsa sfrenata di tutti i Leprotti su su su su fino alle segrete dei Piombi, e arriviamo tutti con il fiatone e il Gran Mogol delle Guardie Metropolitane spranga il portone con sferragliante stridore di cardini incarogniti di ruggine e secoli.

E dentro, in un silenzio profumato di trementina oppio, liquori e vagina, c’è il Maestro Ludovico De Luigi a petto nudo con uno strepitoso capello pieno di piume di uccelli del Paradiso, che dipinge con tocchi soavi di pennello l’incantevole scena di due splendide ragazze (completamente!) nude mollemente reclinate su un sofà: «COLFERAI!!!» grida il Maestro: «Gera ora! Ti mancavi solo che ti! FINALMENTE!!!»

E con grazia mi lancia un fagotto che nell’aria si srotola e si svolge in un saio fratesco: «Metite subito el saio: ti fa el frate somasco Marino Balbi, e mi fasso Giacomo. STANOTTE si FUGGE dai PIOMBI!!!»

E mi sono svegliato sul più bello.

Ludovico De Luigi, Eros Ducale (2013).

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