Al di là del muro — II

Parte seconda

Vicenza, 25 agosto 1974 – Palazzetto dello sport – Il corridoio dove aspettiamo è bianco. Il sibilo della luce dei neon. Uno in fondo lampeggia in maniera irregolare. Niente finestre. Il caldo d’agosto si è fatto ancora più insopportabile. O forse, è solo una mia impressione.

I reduci – è il caso di dirlo – dei tre giorni di allenamento sono sparpagliati lungo il corridoio come i rimasugli del vasetto della marmellata sulla fetta di pane. E noi dovremmo essere l’élite che si presenterà all’esame di cintura nera? Sembriamo più un’armata di zombie. Preferisco non sedermi. Nessuno dice niente. Non serve. Mi raggiunge mio padre. Dalla sua faccia capisco che tipo di odore emaniamo. Le ultime quattro ore di karate ci hanno visto buttare fuori più acqua di un monsone. I keidogi da bianchi sono diventati giallo-grigi.

«Come ti senti, Christian?» in tutta riposta socchiudo gli occhi. Lo vedo preoccupato. Sono talmente stanco che non so più cosa pensare. Meglio così.

«Vuoi che ti porti a casa?» Mi giro di scatto a fissarlo. Come osa?! Lui ricambia il mio sguardo.

«Ok, allora andiamo avanti» e si accoda con me nel corridoio.

«Non ce la faccio più …» sento dire uno dietro di me.

«A questo punto mi devono sparare per mollare tutto» gli dico, girandomi a guardarlo. Un altro adulto mi fissa. Viene verso di me, e mi stringe una mano sulla spalla: «Tieni duro, come ti chiami, Christian giusto? – annuisco – ci siamo oramai.» Avevo sentito parlare della fatica che unisce. Ora capisco.

Potrei chiedere a mio padre cosa gli hanno detto gli assistenti del maestro prima, quando abbiamo finito l’allenamento. Ma a questo punto non mi importa più.

L’esame

Ci hanno chiamato a gruppi di quattro.

Capitan America e i Vendicatori hanno lasciato posto a quelli che sono dei veri e propri mostri sacri. Trovo a esaminarmi gente di cui avevo sentito parlare a voce bassa, o di cui avevo letto su qualche rara rivista straniera in bianco e nero. Tra di loro, il maestro del maestro Shirai: Taiji Kase… non riesco a pensare a nulla di meno di Godzilla. Il suo aspetto è scultureo, marmoreo. Seduto dietro la scrivania dalla quale mi giudicherà, non l’ho ancora visto muovere un muscolo. Gli angoli della bocca piegano leggermente verso il basso, mentre gli occhi a mandorla sono un cancello chiuso sull’impossibile. Poi, d’improvviso, vede uno degli assistenti, e il viso gli si apre in un sorriso che non avevo mai visto. Sembrava che tutta la gioia del mondo trovasse espressione nel suo volto. “Meno male: allora è umano!”

Mi sistemo dove mi indicano. Poi mi sposto di qualche centimetro. Me lo sono guadagnato.

Non ho paura. La stanchezza ha aperto la strada a una sorta di ineluttabilità dalla quale sento di non poter sfuggire. Voglio superare questo esame, voglio la cintura nera in vita, ma allo stesso tempo, è come se non me ne importasse più. È come se fosse già mia, e nemmeno loro potrebbero portarmela via. Non dopo quello che ho passato. E partiamo.

Facciamo esattamente quello che per centinaia di volte abbiamo già eseguito negli ultimi tre giorni. Che ci hanno fatto fare in tutte le maniere possibili e immaginabili. Che ci hanno fatto persino odiare. E nonostante tutto, più di qualcuno riesce ancora a sbagliare. Era proprio vero: «Non pensare, fai!»

Mio padre è fuori della sala. Non è stato ammesso nessun visitatore. Prima, quando hanno urlato il mio nome dalla porta del corridoio, non mi sono nemmeno girato a salutarlo. «Christian…» l’ho sentito chiamarmi, ma non ho voluto giurarmi.

Ho superato indenne la prima prova, quella dei fondamentali, il kihon. I primi problemi sono cominciati con la seconda, quella del combattimento, il kumite. Mi sono trovato di fronte un adulto che aveva sbagliato il kihon, e dalla faccia sembrava volesse rifarsi nel kumite, a mie spese. Sono riuscito a togliermi un pugno dalla faccia all’ultimo istante, mentre contro un suo calcio, nell’impatto avrei giurato che il braccio mi si fosse rotto. Un male cane, ma nulla di più, per fortuna. Non credo che a papà sarebbe piaciuto tanto.

Siamo alla terza prova, quella del kata. Il ragazzo accanto a me sbaglia un passaggio. Non mi fermo. Anzi, aumento potenza e velocità. So come si sente lui. Sento i suoi occhi addosso. So che mi guarda e che cerca di ritrovare il bandolo della matassa. La sequenza di movimenti preordinati del kata Bassai-dai è piuttosto complessa. Se ci si ferma a guardare i compagni è impossibile ritrovare la concentrazione. È come se gli altri, impegnati nello sparare pugni e calci, ti togliessero tutta l’energia di cui hai bisogno. Con la coda dell’occhio lo vedo tornare al punto di partenza. Ma non riparte. “Concentrato, non devo distrarmi!”

Schieramento

Gli esami sono finiti per tutti. Dopo la mia prova mi hanno mandato a sedere. Mi sono buttato contro il muro vicino all’uomo del corridoio. “Che facciano quello che vogliono adesso, io non ho più nulla”. Raramente in vita mia avrei riprovato tanta spossatezza. Ma ogni volta ho pensato a quel momento. Ed è servito.

L’uomo mi sorride e abbozza un’espressione del tipo «Caspita ragazzo, ce l’hai fatta…»

Ci richiamano, e ci allineano davanti ai tavoli degli esaminatori. Una linea unica che corre da un punto all’altro della sala. Di solito siamo perfettamente dritti, ora le mani sono appoggiate ai fianchi, chi su una gamba, qualcuno si appoggia al compagno a fianco. Gli occhi di tutti fissano le due pile di tessere sul tavolo centrale. Una è altissima, sull’altra ce ne sono … vediamo … non può essere, sono troppo poche!

«Il grado di cintura nera è un livello di eccellenza – comincia Bruno, il mio insegnante, guardando la pila più alta – Chiameremo i promossi, ai quali riconsegneremo le tessere con la firma dei maestri esaminatori e la convalida nel nuovo stato…»

«… stato?»

«… sì, perché di questo si tratta: di un nuovo modo di essere e di concepire la vita…»

Mormorii di disapprovazione.

«… non si prende la cintura nera, ma si diventa una cintura nera … si supera un muro ben preciso e ci si trasforma in un uomo o una donna marziale, seguendo un codice e una disciplina ben precisa. Una disciplina alla quale si accede attraverso una dura prova fisica e una precisissima tecnica di combattimento, ma che deve, allo stesso tempo – e qui rallenta abbassando il tono della voce – confluire sia nella vita di tutti i giorni che nel nostro cuore. I miei complimenti comunque a ognuno di voi. Siete, in ogni caso, cresciuti tutti.»

«… sarà, ma gli occhi di tutti sono sempre sulle due pile …»

«I promossi …» e la mano va alla pila più alta, per prendere la prima tessera da quell’altra. Sento degli sbuffi. Qualcuno si siede. Uno si stacca e punta dritto alla porta.

Non penso a niente. Vedo solo quella mano che apre le tessere come un libretto sacro. Sento i nomi come in sottovuoto. Vedo quelli che vanno a ritirare il proprio libretto trattenere a stento l’euforia.

Al quarto, l’ultimo: «Gonzales!»

L’uomo del corridoio (anche lui ce l’ha fatta) mi dà un gran manata sulla spalla e mi spinge avanti. Ritiro la tessera e i super eroi mi guardano dall’alto delle loro montagne. Il maestro Shirai abbozza un sorriso. Un giorno mi sarei allenato con loro, ma questa è un’altra storia.

A distanza di anni mio padre mi avrebbe confessato che quando avevo risposto al nome dal corridoio, lasciandolo lì senza girarmi, il quel preciso istante mi aveva visto crescere. Allo stesso tempo però, aveva sentito di avermi un po’ perso. C’era riuscito, ma c’era anche stato un prezzo da pagare.

Grazie, papà.

Il giovane Christian a Vicenza, il 25 agosto 1974 (su…

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