Un’equina equità

Cavalcata etimologica su vaste superfici equoree non proprio uguali

Ha seminato il panico in tutta la nazione la parola «equità» pronunciata e ripetuta dal capo del governo in questi giorni. Subito è parsa migliore di «uguaglianza», termine dagli echi sanculotti e bolscevichi; a molti è parsa rasserenante, dopo un ventennio di insulti astiosi. Da dove viene fuori questa «equità» galoppante? E che cosa mai avrà voluto dire?

C’è stato un equivoco. Abbiamo capito male. Succede quando una voce è uguale ad un’altra e ci si confonde, si fraintende. Quest’inutile scienza che è l’etimologia, noiosa persino in una cena di vecchi rincoglioniti, aveva sempre sostenuto che il basso latino æquivocus fosse un composto di uguale, simile, e vox voce, vocabolo. Come dire: una parola che può intendersi o interpretarsi in più modi e dare perciò adito ad errori; quindi ambiguo, dubbioso, incerto. Tipo un qui pro quo. Quello in cui siamo caduti.

«Equo» è l’aggettivo da cui deriva «equità»: in latino æquus, ovvero piano, unito, uguale, che già in epoca classica aveva perso il suo significato originario assumendo il senso figurato di conveniente, giusto, ragionevole; e che quindi «ha il senso della misura e della moderazione, che è giusto e imparziale» almeno secondo l’umanista Pandolfo Collenuccio nel lontano Cinquecento e che secondo il titanico Vittorio Alfieri (addirittura) è «proporzionato alle concrete esigenze»; però con Alfieri siamo nei primissimi anni dell’Ottocento, tanto tanto tempo fa.

Hanno invece mantenuto il significato originario moltissimi derivati e composti di «equo»: «equanime» (calco dal greco isopsychos) di animo uguale; «equatore» (che rende uguali i giorni e le notti, ma nel latino medievale, da cui deriva, valeva colui che rende uguali le monete); e poi «equazione», «equiangolo», «equidistante, «equilatero, «equilibro» (composto latino di aequi e libra, bilancia, sul modello greco isostathamìa); e ancora «equinozio» (quando il sole è perpendicolare all’equatore e la notte è uguale al giorno), «equiparare», «equipartizione», «equipollente», «equivalente» e «equivalere, ed il disusato e poetico «equoreo»: marino, se immaginiamo la distesa del mare come una vasta superficie piana tutta uguale. E poi appunto: «uguale» e tutta la sua famiglia, come «uguaglianza». Voce dotta ed anche tecnica (statistica) «perequare» rendere pari, distribuire con equità, con il prefisso latinopĕr fino in fondo da cui il contrario. molto usato e sentito, «sperequazione» disuguaglianza nella distribuzione, disuniformità e quindi contrasto, differenza, difformità, dislivello, disparità, disuguaglianza, divergenza, diversificazione, diversità, ingiustizia, sproporzione, squilibrio.

Non c’entra nulla invece l’equitazione, equina voce dotta equestre d’origine latina (ĕquus cavallo dall’antico indoeuropeo ekwo) entrata in italiano dal francese nel 1500; né tampoco l’equipaggio, dal francese équipage, da équiper, imbarcare, poi provvedere un’imbarcazione del necessario, voce di origine germanica dalla radice del tedesco Schiff, imbarcazione.

Eliminati i cavalli, non sono chiare le origini del latino æquus. Secondo alcuni sarebbe imparentato con il sanscrito êka uno e il greco eikòs verisimile, simile al vero, al giusto, e quindi che è naturale, che conviene (eikon immagine, similitudine da cui «icona», un tempo santa parola desueta e oggi prosaica comunissima sui nostri schermi). Sul verisimile (eikòs) che raccoglie tutto ciò che non può essere definito sicuramente vero o falso, si è fondata e sbizzarrita per secoli la retorica, una parte fondamentale del pensiero umano che si occupa dell’arte del discorso nei suo aspetti migliori (quando studia l’uso e gli effetti del linguaggio, come per esempio facciamo qui) e peggiori (quando lo usa per sedurre gli imbecilli bendisposti, che siamo noi, anche stavolta).

Un'equina equità